Quanto roba ‘Pascouche’ di Antonio Pascuzzo, mamma mia. A volte, per chi fa il critico musicale, la nuova idea di discografia risulta un sollievo. Dischi, passatemi un termine vintage, che visto l’artista che andiamo a trattare non è neanche così fuoriluogo, dischi, si diceva, tutti fatti con lo stampino.
Un singolo, massimo due, e altri brani messi lì a fare massa. Ma non massa muscolare, ciccia, adipe, roba superflua. ‘Pascouche‘, invece, album d’esordio, si fa per dire, di Antonio Pascuzzo, già guida dell’orchestra da club Rossoantico, è tutt’altro. Tanta tanta roba.
Già il titolo dice qualcosa, Pascuzzo, infatti, cantautore e musicista colto e onnivoro, gioca col suo cognome e col termine “manouche”, uno degli stili del jazz che ha origine nella cultura sinti e tzigana. Per capirsi, quella di Django Reinhardt, tanto per sparare subito un nome. Ma altri nomi, qui, non se ne faranno, se non en passant, perché oltre che tanta musica, e tante influenze, Pascouche è un vero concentrato di collaborazioni, citazioni, rimandi. Talmente tanti da rendere impossibile anche un microscopico ragionamento, a voler indicare tutto e tutti.
Quindi Pascuzzo parte dal manouche, e lo fa grazie alla collaborazione di Angelo Debarre, di Django considerato, a ragione, erede in vita. Ma come?, non avevi detto che non avresti fatto nomi?, dirà qualcuno. Non stiamo a sottilizzare, seguitemi nel ritmo sghembo di queste parole. E la parola sghembo, che per la cronaca adoro, è forse la più adatta a descrivere questo lavoro.
Ricco, ricchissimo di musica, di parole, di storie, di vita. Quattordici brani in grado, di ricreare un universo mondo, e provateci voi, se ci riuscite a trovare un esordio capace di tanto. Vorrei citare Capossela, perché il critico indolente che è in me cerca di forzare la mano all’altro, quello che adora prenderla con calma e fare giri larghi, ma l’esordio di Capossela era tutta altra cosa, e la sua poetica pure. Però, diciamo, se proprio uno volesse pigramente cercare un paragone con un altro cantautore ricco di riferimenti, ecco, il nome è lì. Ma Pascuzzo è altra cosa. È un mondo a sé.
Quattordici brani, si diceva. Tutti intensi. Tutte storie che affrontano temi mica da ridere, dalla querelle Tav/ No tav del brano d’apertura, Alta felicità, ai rapporti amorosi falsati da chi ci sta intorno, metafora valida anche per quel che concerne il vivere sociale, di Stella cadente, brano che chiude. Entrambi impreziositi proprio da Debarre. In mezzo, siccome la roba, ripeto, è tanta, di tutto. Dal fado, al calypso, passando per la taranta, la musica da camera rivisitata e poppizzata, il cantautorato classico, il folk, la musica balcanica, anche un pizzico di rock’n roll.
Tutto, ripeto. Anche nei temi trattati, da storie partigiane all’omofobia, toccata con delicatezza a partire dalla storia delle due atlete russe che si baciarono per protesta contro le leggi omofobe di Putin, dalla violenza sulle donne, all’arte vista come necessità di denuncia, dalla rabbia che spesso parte da qualcosa che non abbiamo di risolto verso di noi e che sfocia negli altri, ai viaggi dei disperati verso la Sicilia, dal machismo al senso, oggi, di essere musicista.
A mettere becco, bocca, mani e cuore, una pletora di musicisti come sarebbe difficile immaginare tutti in un colpo sole. Dal già più volte citato Debarre a Marco Poeta, fadista prestato alle Marche, dai Solis String Quartet, cui è dedicato un brano, agli ukulele dei Sinfonico Honolulu, dalle chitarre di Giorgio Secco e Marco Rinalduzzi, anagraficamente appartenenti a epoche diverse, ma entrambi destinati a rimanere nella nostra storia musicale, agli stessi Rossoantico, band da club diretta in passato dallo stesso Pascuzzo e oggi affidata al solo Pericle Odierna, e poi Francesco Forni, qui in veste di saltuario co-produttore, arrangiatore e voce.
Ecco, Forni, in compagnia con Ilaria Graziano è probabilmente quanto di meglio si è affacciato sulla scena del nostro cantautorato di recente, su di loro ci sarebbe da parlare a lungo, ci sarà da parlare a lungo. Qui il lavoro di Forni è eccellente, ottimo contraltare al gusto e alla cultura di Pascuzzo, un nome che andrebbe appuntato sui post-it nei frighi di tutti quanti amano la buona musica.
‘Pascouche’ è un album che merita di essere ascoltato con calma. La fretta ce lo renderebbe incomprensibile, troppa vita, troppa musica. Qui di corredo trovate in anteprima il video del singolo L’età dell’innocenza, il cui tema, trattato con sfumature noir, non anticipo proprio per non rovinare la sorpresa. L’omaggio al Sin City di Frank Miller è perfetto, anche per le atmosfere musicali della canzone. Siccome però Pascouche è un mondo, non un frammento di mondo, se volete entrare in contatto con Pascuzzo dovete mettervi comodi e prendervi tutto il tempo che serve per ascoltarvi le quattordici tracce, possibilmente tornando sui vostri passi, perdendovi.
Se non avete tempo e voglia, non preoccupatevi, c’è Briga che ha tirato fuori il suo Never Again, per quello non serve neanche di stare a sentire.