Due colpi di cannone dal Forte Verena alle 4 del mattino del 24 maggio 1915 e l’Italia entrò in guerra. Un milione e 300mila morti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati, fu il tragico risultato di una guerra di trincea iniziata cento anni fa proprio quella notte dall’imponente fortezza collocata sulla sommità di una montagna vicentina a ridosso del “confine” con l’Austria. Forte che, tra l’altro, dopo una spavalda settimana di fuoco a sorpresa contro il nemico venne pesantemente cannoneggiato dagli austriaci e nemmeno un mese dopo finì per essere praticamente fuori uso. Con un anno di ritardo rispetto alla scintilla di Sarajevo – l’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo è del 28 giugno 1914 – e alla dichiarazione di guerra austriaca del luglio del 1914, l’Italia diventò parte attiva del conflitto mondiale dopo che nelle piazze e sui giornali del paese si era andato formando uno schieramento interventista che non fu solo una boutade di intellettuali dal pomposo ardore patriottico e dal grilletto facile. Fu invece una vera e propria “conversione” alla guerra: minoritaria sì, ma in grado di spostare le scelte governative nazionali dal neutralismo giolittiano perdurato nel 1914, alla repentina mutazione delle alleanze internazionali (dalla “Triplice” con Austria e Germania all’Intesa con Francia, Inghilterra e Russia), fino alla chiamata al fronte di una massa di contadini e operai.
“In dieci mesi accade qualcosa che assomiglia ad un referendum. Nessun altro popolo europeo viene interpellato come quello italiano in modo così forte per andare in guerra”, spiega a ilfattoquotidiano.it il professor Mario Isnenghi che con Donzelli ha appena pubblicato Convertirsi alla guerra. “L’alleanza con Austria e Germania attuata fin dal 1882 non poteva durare vista l’anima risorgimentale del Paese. Bisognava districarsene. Le cose però si complicano perché i governanti erano essi stessi dei germanofili: i ministri di centrodestra Salandra, Sonnino e San Giuliano, per esempio. Il punto allora è: come mettere d’accordo il pragmatismo di governo con la mistica irredentista che sta invadendo le piazze?”.
In pochi mesi si forma un fronte interventista eterogeneo che comprende l’irredentismo di Cesare Battisti – deputato trentino socialista al parlamento austriaco -, il socialista massimalista Mussolini, Gabriele D’Annunzio, gli intellettuali e le firme della Voce, e che si scaglia contro il Parlamento e la figura neutralista del più volte primo ministro Giolitti costretto a dimettersi nel marzo del 1914. “E’ una convivenza che oscilla tra tanta e poca fatica a seconda dei singoli, ma che per tutti ha un valido minimo comune denominatore: fare la guerra, il resto si vedrà – continua Isnenghi – Oltretutto è praticamente il poeta Vate, a Quarto il 5 maggio 1915 nell’anniversario garibaldino, a dichiarare guerra al nemico austriaco. Nel cosiddetto maggio radioso in lui si fondono interventismo sopraffattorio e indipendentismo garibaldino da quarta guerra d’indipendenza”.
Il fronte neutralista, con le sue tre anime (liberaldemocratica, cattolica e socialista) non sarà comunque in grado di imporre la propria oggettiva forza parlamentare: “Perfino il premio Nobel per la pace del 1907, Ernesto Moneta, si dichiara per il conflitto. Solo tra le masse contadine possiamo parlare di un’idea pacifista minima che però non riesce a trovare le parole per esprimere una coscienza”.
“Il punto cruciale è che il sentimento neutralista era maggioritario nel paese, ma era un atteggiamento più che altro riferito ad un generico ‘non c’entrare‘ con quello che avveniva oltre confine, non a qualcosa di ideologicamente pacifista come possiamo intenderlo oggi”, spiega il professor Gian Enrico Rusconi che ha pubblicato con il Mulino 1914: Attacco a Occidente. “C’era una parte attiva, aggressiva e minoritaria; e una passiva ma senza militanza pacifista perché comunque il mito risorgimentale di riguadagnare Trento e Trieste rimaneva vivo. Un sentimento che il fascismo farà lentamente suo dopo la guerra. Semmai è la figura di Giolitti, questo suo abbandonare la partita nel maggio 1915 pur avendo la forza di portare il Parlamento su posizioni neutrali, a far discutere”.
Del grande sacrificio di centinaia di migliaia di soldati durante la prima guerra mondiale si è ricominciato a parlare (“l’inutile strage”) molto tempo dopo la seconda guerra mondiale: “Più che di oblio, parlerei di una forma di sacralizzazione della morte in guerra. Non è una battuta, ma un paradosso: l’enormità è stata socializzata – conclude Rusconi – Quando si va in questi enormi sacrari si prova un senso di intimorimento e come si fa a dire siete morti per niente? E poi c’è la vittoria, contestata fin che si vuole, ma oggettivamente avvenuta. Ai nostri giorni penso e mi auguro si sia sufficientemente maturi per capire le ragioni degli altri: certo la prima guerra mondiale fu una tragedia pazzesca, un sacrificio brutale, ma ci sono migliaia di ufficiali che hanno combattuto e sono morti per un’idea importante”.