Per concludere il discorso calcio (cosa di cui parlerei per ore e ore e ore, figuriamoci con uno così), mi piace anche quello che mi ha raccontato sul West Ham (in Inghilterra tifa per gli Hammers, l’elenco completo del suo tifo è nell’altro post che ho scritto). Dunque, la notizia è che il West Ham si trasferisce all’Olympic Stadium, e questo è un argomento di discussione molto acceso tra i supporters; e che Irvine Welsh commenta così: “E’ difficile immaginare gli Hammers che non vanno più ad Upton Park, è troppo bello quello stadio, è tra i miei preferiti. Ma se tutto va bene, e le persone che se ne occupano fanno cose sensate, allora il supporto di mezzi finanziari può cambiare le cose. Se penso come è andata all’Arsenal, al Tottenham e al Chelsea, forse anche il West Ham può far parte di questa élite, in cui ci sono più infrastrutture, più benefici per i tifosi, c’è un campo migliore, ci sono più soldi che girano. Ma l’importante è usare questi soldi per il bene del tifo. E’ la loro ultima possibilità, altrimenti sono destinati a stare in fondo alla classifica, e invece magari con questi grandi investimenti potrebbero puntare alla Champions League. La domanda da farsi è: questa squadra potrà mantenere l’anima? Lo stadio determina l’anima dei tifosi, secondo me. Vale la pena di rischiare. Anche se pensare che è tutta una questione di soldi mi fa un po’ di tristezza. Perché sarebbe edificante invece che tutte le squadre avessero la stessa possibilità di competere e di salire, a prescindere dai soldi, e solo grazie al merito. Il calcio deve avere le stesse regole, le stesse possibilità, gli stessi stimoli per l’outsider e per la grande potenza. Ho visto che si mossi bene, hanno diminuito il biglietto stagionale, e questa è sempre una scelta azzeccata. Approvo. Stanno cercando di aiutare i tifosi: quindi, ottimo”. La chiacchierata poi continua sui tifosi, sugli istinti da controllare, e il lato cerebrale da coltivare. Su Desmond Morris, e sulla metafora degli animali e del tifo, delle battagli e delle partite di calcio (qui c’è un link all’intervista che ho fatto a Desmond Morris). Ma c’è ancora molto altro che devo raccontare.
Quando era ragazzo suonava in una punk band. Oggi, quale musica ascolta. “Non ero bravo a suonare la chitarra, non ero bravo a cantare, non ero bravo col basso, quindi ho dovuto lasciare. Ma mi piace andare nei locali piccoli e sconosciuti, sedermi tra i veri appassionati, ed ascoltare band che magari sono al loro primo concerto. Facevo anche il dj, ad un certo punto della mia vita. Scrivevo delle ballate, e quindi ho capito che la mia evoluzione artistica sarebbe stata la scrittura. Ho un gusto che spazia molto, non mi fermo neanche ascoltando la musica. Il mio gruppo preferito in questo momento sono gli Alabama 3, sono andato ai concerti, e cantato tutte le canzoni”.
Sul suo metodo di scrittura. “Mi sveglio sempre molto presto, perché penso che l’alba sia un momento della giornata molto prezioso. Scrivo dalle 6 alle 9, e non mi fermo. Faccio colazione. Mangio molto, e bevo ancora di più, quindi devo andare in palestra. Il pomeriggio rivedo quello che ho scritto, faccio le correzioni, non sono uno che riscrive da capo tutto, modifico qua e là. Poi la sera me la prendo sempre libera. Vado spesso al cinema, da solo. Scrivo in casa, ho un mac un po’ più grande del tuo, e mi è capitato anche di scrivere in strada. Ad esempio, nella metropolitana inglese, lungo la circle line è sempre stato un luogo di grande stimolo per me. Mi sedevo lì, e scrivevo, mentre la tube viaggiava”.
Cosa sta leggendo in questo periodo. “Adesso sto leggendo libri di amici Tim Lott, Philip Kerr, e un libro che mi sta piacendo molto: “Ghettoside. A True story of murder in America” di Jill Leovy, che parla delle gang di Los Angeles e di questo tipo di criminalità, molto illuminante, e interessante”. Autori americani preferiti. “Ron Rash, Jonathan Franzen, William S. Burroughs”. Film preferiti. “Fitzcarraldo, Society, White Christmas”.
La connessione tra la letteratura contemporanea della working class inglese e americana, ora vive a Chicago, prima a Londra. “La cosa in comune tra i due paesi è che gli autori principali, di massa, quelli di successo, sembrano sempre provenire dalle grandi città, dalle metropoli principali. E questo fa molto male alla letteratura. Io escludo sempre il mainstream, le voci più interessanti provengono da fuori, da piccoli paesi o ritrovi meno clamorosi. Dal sud dell’America, infatti, io sto scoprendo molti autori giovani, che stanno crescendo. Bisogna allontanarsi dal grande clamore che creano i nomi conosciuti, cercare altrove. Io nelle mie giornate mi allontano da NY, e dalla visione metropolitan-centrica sempre. Nel mondo, faccio sempre così. A Londra, ad esempio, John King scrive di altro. Il mio consiglio è: correte spregiudicati, sempre”.