Stabile, moderato, affidabile, moderno. Sono alcuni tra gli aggettivi frequentemente associati al Marocco, soprattutto da quando, nel 2011, il governo mostrò alla comunità internazionale di essere in grado di rispondere alle proteste di massa scoppiate in tutta la regione promettendo una serie di riforme e una nuova costituzione (non andò esattamente così, come abbiamo raccontato qui).
All’ombra di quegli aggettivi, si cela una realtà di torture impunite, usate per estorcere ‘confessioni’ e ridurre al silenzio attivisti e dissidenti, rivelate da un nuovo rapporto di Amnesty International.
Il rapporto segnala, per il periodo 2010-2014, 173 denunce di tortura nei confronti di uomini, donne e anche minorenni, ad opera delle forze di sicurezza e di polizia. Tra le vittime figurano studenti, attivisti politici affiliati a organizzazioni di sinistra o islamiste, sostenitori dell’autodeterminazione del Sahara occidentale e persone sospettate di terrorismo o di reati comuni.
L’elenco delle tecniche di tortura è lungo: pestaggi, schiaffi prolungati sulle orecchie e in testa, obbligo di rimanere in ginocchio per lunghi periodi di tempo e spesso con gli occhi bendati, minacce di stupro con bottiglie o manganelli, scariche elettriche, bruciature con le sigarette, umiliazioni sessuali mentre i prigionieri sono costretti a rimanere nudi.
C’è poi il metodo del “pollo allo spiedo”, in cui il prigioniero è tenuto sospeso a testa in giù, legato polsi e ginocchia a una sbarra e sottoposto a ulteriori sevizie.
Mohamed Ali Saidi, 27 anni, è uno dei numerosi sahrawi che hanno denunciato di essere stati torturati dalle forze di polizia dopo gli arresti eseguiti nel corso delle proteste scoppiate a Laayoune nel maggio 2013, a seguito della condanna di 23 attivisti:
“Hanno minacciato di violentarmi con una bottiglia. Me l’hanno messa davanti agli occhi, era una bottiglia di Pom [una bevanda analcolica alla mela molto diffusa in Marocco]. Mi hanno sospeso nella posizione del pollo allo spiedo e hanno iniziato a bastonarmi sulle piante dei piedi. Sempre mentre ero in quella posizione, mi hanno immerso i piedi nell’acqua gelata, mi hanno messo uno straccio sulla bocca gettandomi nel naso prima acqua e poi urina. Alla fine mi hanno tolto tutti i vestiti a parte le mutande e mi hanno preso a cinghiate dietro le cosce”.
Si rischia la tortura sin dal momento dell’arresto e per tutta la durata della custodia nelle mani della polizia.
Abderrazak Jkaou, uno studente dell’università di Kénitra, ha denunciato di essere stato picchiato fino a perdere conoscenza alla vigilia di una manifestazione:
“Alcuni avevano lunghi bastoni di legno. Mi hanno picchiato dalla testa ai piedi. È arrivato un agente in borghese che si è messo una manetta intorno alla mano e mi ha colpito in mezzo agli occhi. A quel punto sono svenuto. Altri agenti hanno preso a schiacciarmi la vescica con gli stivali fino a farmi urinare, come messaggio agli altri studenti. Loro pensavano che fossi morto”.
Il sistema giudiziario privilegia il torturatore a scapito del torturato. I tribunali emettono spesso condanne basate su “confessioni” ottenute con la tortura e non indagano sulle denunce presentate in aula dagli imputati. Una storia vecchia: per tutto il periodo degli “anni di piombo” (dal 1956 al 1999) non c’è stata una sola condanna per tortura.
Negli ultimi anni, solo una volta una corte d’appello ha annullato una condanna e ordinato il rilascio del prigioniero, riconoscendo che la sentenza di primo grado si era basata su confessioni estorte con la tortura. Ma c’è di più. Chi osa denunciare e chiedere giustizia può essere addirittura incriminato per “calunnia” e “diffusione di notizie false”. La “diffusione di notizie false” può essere punita con un anno di carcere e una multa equivalente a circa 443 euro, la “calunnia” con cinque anni di carcere. Negli ultimi 12 mesi sono stati avviati otto procedimenti giudiziari per questi “reati”.
Quattro degli otto incriminati per “calunnia” o “diffusione di notizie false” hanno presentato un ricorso ai tribunali francesi, in quanto aventi doppio passaporto o coniugi di cittadini francesi.
Questi ricorsi potrebbero diventare impossibili se il parlamento di Parigi approverà una proposta di legge per porre fine alla competenza dei giudizi francesi su violazioni dei diritti umani avvenute nel paese maghrebino.