Se Massimo Mila, come esponeva nel suo Lettura del Don Giovanni di Mozart, credeva fallito l’intento del musicista salisburghese di mostrare un esempio in negativo (Don Giovanni) per giungere a una morale finale, creando invece, e senza volerlo, un eroe romantico, noi crediamo esattamente il contrario. Crediamo cioè che l’intento pedagogico mozartiano sia perfettamente riuscito, e che il II atto dell’opera, secondo Mila non propriamente felice sotto il profilo drammaturgico, sia, come spiega il Prof. Antonio Rostagno dell’Università La Sapienza di Roma, strumentalmente frammentato al fine di creare una proiezione esterna dell’interiore lacerazione di Don Giovanni. Sostenendo anche noi l’illuminato intento pedagogico mozartiano, ci apprestiamo a ulteriori osservazioni.
L’opera di Mozart-Da Ponte si apre sul primo dei grandi crimini di Don Giovanni, l’assassinio del Commendatore, accompagnato dal famoso accordo di settima diminuita. Il primo di tre crimini (insieme alla violazione di Zerlina e al rifiuto di pentirsi a cui lo esorta la Statua del Commendatore) che Don Giovanni compirà nel corso dell’opera e che gli autori dispongono geometricamente lungo tutto l’arco temporale del dramma: all’inizio, al centro e alla fine. Come il primo, anche il secondo e il terzo crimine vengono commentati e in certo qual modo segnalati dall’accordo di settima diminuita.
Mozart, come già notava Mila, mette in scena nel I atto la caccia a Don Giovanni, mentre nel II la sua dannazione che, come qui sostenuto, viene espressa non solo in senso drammaturgico (la non casuale frammentarietà della costruzione) ma anche psicologico: dopo il finale del I atto Don Giovanni chiede al servitore Leporello di scambiarsi d’abito perché lui sia Leporello e viceversa. Cosa porta Don Giovanni a rifugiarsi nei panni del servitore?
Culminata, nel finale del I atto, la caccia al protagonista col suo smascheramento (e dunque, come in ogni caccia, con la morte della preda, ossia la maschera dongiovannesca di “nobile cavaliere” che buttata a terra “muore”), il protagonista, prima di affrontare la sua fine, desidera burlarsi della verità e della giustizia un’ultima volta, nascondendosi nei panni del proprio alter-ego, Leporello, controfigura nonché materializzazione della sua più vera, meschina e autentica essenza. Finita anche quest’ultima messinscena, Don Giovanni, prossimo alla morte, si ritrova proprio al cimitero dove, inconsciamente, vaga in cerca della propria fine incarnata dalla Statua del Commendatore.
Mozart, con dovizia di particolari e ricorrendo a tutti i trucchi del mestiere, desidera mostrare la fine di chi, gonfiando oltremodo il proprio ego, arriva a oltraggiare persino Dio. L’ego di Don Giovanni infatti, quasi fosse un buco nero, non è mai sazio e continua senza sosta a calamitare ogni cosa, ogni persona.
Confrontando il finale del I atto con quello del II abbiamo la risultante scenica di quanto finora sostenuto. Entrambi i momenti sono ambientati nella dimora di Don Giovanni, ma se nel finale del I assistiamo al culmine di quel processo di seduzione che aveva risucchiato ogni personaggio, nel finale del II, dopo lo smascheramento del protagonista, lo ritroviamo, eccezion fatta per l’alter-ego Leporello, completamente solo a ingozzarsi di cibo, risucchiato da se stesso in un vortice letale che di lì a poco lo ucciderà. Non c’è più musica alcuna ad animare la dimora di Don Giovanni: il silenzio, che segnala la fine imminente, è specchio fedele del vuoto che il protagonista vive, adesso, sia dentro che fuori di sé.
Un’operazione dunque prevalentemente pedagogica quella del collaudatissimo duo Mozart-Da Ponte, autori consapevoli di un preciso disegno drammaturgico e dei mezzi necessari alla sua realizzazione. La grande moralità cristiana di Mozart, per nulla in contrasto ma anzi in linea con la frequentazione delle logge “Alla beneficenza” e “Alla Concordia”, trova nel Don Giovanni uno dei suoi momenti di più alta espressione.