Musica

La notte che Bob Dylan mise al mondo il rock: cinquant’anni fa usciva “Bringing it all Back Home”

Nasce Robert Allen Zimmerman a Duluth e, a 20 anni, cambia nome in Bob Dylan: ha vinto tutti i premi, anche un Oscar, è l'artista più celebrato nel mondo della musica, anche dagli stessi colleghi che hanno spesso rifatto i suoi pezzi. Quando il gruppo che lo accompagnava, The band, si ritirò dalle scene, Martin Scorsese ne fece un film, The last waltz. Molti i film dedicati direttamente a lui. Vive nello stato di New York, ma non rilascia interviste e non fa vita sociale

di Emiliano Liuzzi

Accadde molto nel 1965 di Bob Dylan e dell’America. È l’anno di Bringing it all Back Home, album che include Mr Tambourine Man, Maggie’s Farm, Love Minus Zero. Il suo Paese, sotto la presidenza di Lyndon Johnson spedisce 567.000 soldati in Vietnam, mandati a morire. Lo stesso anno scrive una delle canzone più bella della storia del rock, Like a Rolling Stone. I Beatles scrivono Help!, Dylan si sposa e poi si presenta al Newport folk festival accompagnato da un gruppo e dalla Fender Stratocaster, lascia il folk alle spalle e inizia uno dei tanti periodi della sua carriera. Non è più menestrello, non è un folksinger, né una rockstar: nel 1965 Bob Dylan è semplicemente Bob Dylan, un signore che non arriva al metro e sessantacinque, ma che segnerà qualche generazione per oltre mezzo secolo. Farà discutere, perché Dylan è rimasto imprevedibile, vive di crisi mistiche e contraddizioni, fugge da Dylan si rifugia in tenute milionarie, cade dalla motocicletta, sparisce per mesi. Dal vivo poi riesce a nascondere i suoi pezzi dentro ai brani stessi, non parla, non saluta. Può essere svogliato o unico, ma continua a recitare la parte di se stesso, perché non può avere imitatori. Gracchia o canta con una voce impensabile, come quella uscita dall’ultimo album, dove a 74 anni suonati si mette a rifare Frank Sinatra, tutto quello che Dylan non ha mai voluto essere. Ha tirato fuori delle corde vocali che non sembrano le sue, alti, bassi, ha messo insieme grappoli di note come, e in alcuni casi, meglio di The Voice. Ha stupito, ma senza nessuna voglia di sensazionalismo: la sua arte non è mai stata decorativa, nel senso ampio del termine, l’ha fatta come in quel momento credeva.

Per raccontare chi sia e sia stato Dylan non c’è un inizio preciso, se non quando lascia il Minnesota e parte da Duluth in direzione New York. Ha scritto qualche pezzo e vuole farlo ascoltare a Woody Guthrie, ricoverato in un ospedale per vecchi artisti. Ci riesce, ma tra le strade del Greenwich Village annusa che il futuro è lì, e non può spostarsi. Si chiama ancora Robert Allen Zimmerman, è un ebreo che arriva dal nord freddo, la zona dove anni dopo i fratelli Cohen ambientarono uno dei loro capolavori, Fargo che dalle atmosfere dylaniane ha attinto molto. Non ha uno spicciolo in tasca, e vive di compensi raccolti nei locali del quartiere dove abitò quella che volgarmente venne ribattezzata la beat generation: Allen Ginsberg, grande amico di Dylan, Jack Kerouac, Gregory Corso. Nasce una nuova generazione che diventerà il movimento femminista, la marcia su Washington, il pacifismo, e comunque un vento che laggiù si respirava già, tra New York e San Francisco, e in Europa arrivò nel 1968. Era un nuovo modo di scrivere le canzoni, ma anche di rapportarsi al mondo e alla libertà, alla scoperta di quell’oscuro oggetto che è la democrazia. Una volta, a Conegliano, Francesco Guccini, raccontò che la prima volta che ascoltò Dylan disse: “Cazzo, ma allora è così che si scrivono le canzoni”. Lo stesso, con la voce sporcata dagli chansonnier francese, fece Fabrizio De Andrè (ha tradotto Romance in Durango), e Francesco De Gregori deve molto al Dylan del 1965. Paradossalmente, perché comunque molto diversi, anche lo stesso Morandi e, dopo Lucio Dalla, comunque molto diversi.

In fuga da se stesso

Della vita di Dylan non sappiamo molto. In Italia ha un solo amico, si chiama David Zard. E’ lui che lo ospita quando viene a Roma. E lo stesso Zard, organizzatore di concerti, ma anche raffinato musicologo, confessa a volte di non capirlo: “Trasforma le sue canzoni dal vivo. Faccio difficoltà a riconoscerle. Una sera gli chiesi di farmi Forever Young, e alla fine del concerto mi disse, sentito David che ti ho accontentato? Effettivamente no, gli dissi. Perché non l’avevo riconosciuta”. Ma Zard sa che a Dylan si può perdonare tutto. “E’ un mio amico. Timido, lucido, sincero”. Ernesto Assante e Gino Castaldo, grandi parolieri della musica per Repubblica, dicono che Like a Rolling Stone può essere considerata l’inizio del rock. Quando Dylan la scrisse, in un albergo sulla Pennsylavania Aveneau, a Washington, si piazzò in classifica negli Stati Uniti e ci rimase per tre mesi. Ma soprattutto, fece il giro del mondo come un pugno nello stomaco, a destra e a manca. Dylan scrisse un capolavoro, molto consapevole di quello che stava lì a fare: “E’ il destabilizzante colpo di rullante di Like a Rolling Stone, il brano della discordia, il racconto del crollo sociale, della perdita delle certezze”, dicono Assante e Castaldo. “La teatralizzazione della nascita del rock si compie con la prima esibizione, in formazione elettrica, di Bob Dylan a Newport. La mecca del folk viene violata proprio da uno dei suoi miti di riferimento: è l’apocalisse. Il pubblico fischia, Dylan piange: è nato il rock, non un genere, bensì un modo di fare le cose”.

I tempi che cambiano

Non possiamo citare tutto quello che è stato scritto su Dylan, detto dai suoi colleghi. Valga una cosa, datata 28 gennaio 1988, quando Dylan entra nella Rock and Roll Hall Fame e a Bruce Springsteen viene affidato il discorso d’introduzione: “Quando per la prima volta ascoltai Like a Rolling Stone sapevo che stavo ascoltando la voce più legnosa che avessi mai sentito: era scarna, sembrava allo stesso tempo giovane e vecchia, ma sapevo altrettanto bene che come Elvis libera il corpo di quell’America, lui in quel momento aveva liberato la mente. Era il mondo che cambiava. A Dallas la storia dell’America, un anno e mezzo prima, con l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy aveva preso un’altra strada, aveva cambiato la storia. Dylan, però, fino a quel momento considerato un cantautore politico, un folksinger, un profeta della protesta, mise immediatamente una barriera tra lui e la politica: “Quell’uomo che ha ucciso Kennedy non so cosa e voleva fare, e dove esattamente. Ma devo ammettere, in maniera molto onesta, che ho visto qualche cosa di me stesso in lui”. Era visibilmente ubriaco, Dylan, quando pronunciò queste frasi scombinate, ma c’era tutto quello che accadeva in quegli anni: sì, l’emozione, la paura di un’altra guerra mondiale, la first lady che si butta sul marito e una corsa a Dallas, verso l’ospedale, ma c’era stata la Baia dei Porci, il rischio del conflitto, e l’inizio della guerra in Vietnam, che raggiungerà un culmine nel 1965, sotto la presidenza Johnson. Dylan non dice nulla che abbia del razionale, ma fotografa il volto di un Paese che non sa più quale strada prendere. Che non è con il killer di Kennedy, non lo sarà mai, ma riesce non imputare a Kennedy le ragioni degli errori che si era messo a commettere. Anni dopo, in un’intervista, spiego che “l’America è un Paese fondato sulla schiena degli schiavi. La radice da comprendere è tutta lì”. Ne ha scritte tante di parole, pronunciate poche. Qualche intervista, mai niente di definitivo. Perché Dylan è gentile, consapevole, ma anche piuttosto stronzo, un genio che può permettersi quello che vuole, non quello che può. E’ stato folk, pacifista, elettrico, ha toccato sempre le corde del blues, ha tirato a fare soldi.

L’omaggio di Letterman

In qualche modo ha cercato di difendersi da se stesso, perché ne sarebbe rimasto travolto. E da tutto questo nasce appunto Like a Rolling Stone, che è una evoluzione continua di invettive e sensazioni, una provocazione contro la miss solitudine che cade in disgrazia, smette gli abiti della ricchezza per indossare quelli della miseria. Una bella ragazza, nata ricca e corteggiata, che adesso si ritrova nella strada, a fare l’elemosina, la prostituta, a mangiare nella mensa pubblica e senza una casa dove riposare. Uno dei milioni di senza tetto, senza nome e senza una storia, che popolano le strade degli Stati Uniti. Nasce il rock. Così, quasi come il parto di un figlio non desiderato. Possa bastare l’ultima celebrazione, al Late Show. Nell’ultima puntata, o la penultima, non ha importanza, David Letterman introduce Bob Dylan attraverso poche parole, semplici, dirette, come una pietra che rotola, appunto: “Ho insegnato due cose a mio figlio: sii sempre gentile e rispettoso delle altre persone e ricorda che il più grande cantautore di tutti i tempi è Bob Dylan”.

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