Il Cara di Mineo è stato oggetto della prima ispezione della Commissione d’inchiesta parlamentare sui centri per migranti. Risultato? “Situazione insostenibile, condizioni disumane e opacità nella gestione” scrive Erasmo Palazzotto dal suo account Twitter. La struttura d’accoglienza per i richiedenti asilo più grande d’Europa, al centro dell’inchiesta Mafia Capitale, non sembra esser cambiata di una virgola: sia per le condizioni in cui versano oltre tremila richiedenti asilo, sia sotto il profilo della legalità nella gestione di appalti che ammontano a diverse decine di migliaia di euro dei contribuenti italiani.
Situazione disastrosa e opacità nella gestione consigliano smantellamento della struttura. #CaraMineo
— Erasmo Palazzotto (@EPalazzotto) 26 Maggio 2015
Sono anni che le organizzazioni della società civile, Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) in primis, denunciano le falle di un sistema di accoglienza fatto di maxi centri per migranti, di cui il Cara di Mineo è l’esempio principe. A discapito di un modello alternativo di accoglienza diffusa, dove la distribuzione dei richiedenti asilo sui territori permette di non intaccare i fragili equilibri sociali, già messi a dura prova dall’incessante crisi economica che ha colpito gli italiani, e di garantire un’integrazione concreta e mirata.
Eppure esempi concreti da cui trarre ispirazione per attuare politiche dell’accoglienza sostenibili ce ne sono molti. Ma molto poco conosciuti. Come lo Sprar di Mazzarino, nella provincia di Caltanissetta, dove l’associazione “I Girasoli” accoglie giovani migranti facendoli sentire a casa e, allo stesso tempo, insegnando loro mestieri utili anche al tessuto sociale locale. O come, all’altro capo della penisola, nel bresciano, dove la cooperativa K-Pax “sperimenta con successo l’efficacia dell’elaborazione e della realizzazione di un percorso personale di integrazione formativa, lavorativa e abitativa in tempi chiari e definiti”. Anche qui: poche decine di migranti, non migliaia. E con una grande differenza: soggetti vulnerabili, quali i richiedenti asilo, non entrano a contatto con la criminalità o lo sfruttamento (lavorativo o sessuale) che spesso ruota attorno ai maxi campi, ma vivono come in una famiglia allargata, alla fine del percorso (e una volta ottenuto lo status di rifugiato), risultano integrati con la comunità ospitante e, nella maggior parte dei casi, hanno imparato o già svolgono lavori che vanno a beneficio dell’intera comunità.
Sempre Asgi, in una lettera indirizzata al Ministero dell’Interno, indica come l’unica accoglienza in grado di disinnescare l’illegalità del business sugli immigrati sia quella fatta di “progetti più piccoli come gli Sprar, inseriti nelle comunità locali e secondo linee e standard uniformi sul territorio nazionale”.
E, allora, se i piccoli progetti sparsi nel nostro Paese stanno dimostrando che accogliere bene è possibile e porta anche ricchezza economica e culturale locale, non si capisce davvero, ad esempio, come mai in diverse regioni si inizi a parlare di riaprire grandi caserme dismesse, col rischio di creare nuovi ghetti urbani ed extraurbani, e rinunciare a soluzioni che potrebbero invece creare benessere per tutti.