La strada dei miracoli combina lo scetticismo, ma non sarcastico, con la fede, ma non invasiva. Lo abbiamo constatato a dispetto dei nostri maldisposti pregiudizi ieri sera quando, tradendo i riti illuministici di Ballarò e Dimartedì ci siamo proposti di seguire per qualche po’ la trasmissione che va in onda su Rete Quattro da poco più di un mese. Trovando, va da sé, un ampio assortimento di statuine che piangono e di palmi che sanguinano. E anche un ampio ricorso all’effettistica video e sonora con lampi, rimbombi e stridii che si sforzavano di mettere in scena una atmosfera “soprannaturale”.
Ma poi arrivava lo studio, col pretino giovane e ragionante e Cecchi Paone (il “razionale” Piero Angela di Mediaset) che tenevano comunque i piedi in terra evitando difese e attacchi d’ufficio. Per non dire del vescovo di Giampilieri che, come più duramente non si potrebbe, diffidava dallo spacciarsi per miracolata una specie di Vanna Marchi impegnata nel commercio fra l’al di qua e l’al di là, usa a distribuire batuffoli impregnati di sangue emesso da statue devote di sua proprietà. Tutt’altra aria rispetto ad altri sanguinamenti di statue (ricordate Civitavecchia?) che alle prime stille furono immediatamente sottoscritti dai sindaci locali, di qualsiasi fede e cultura politica, per non distogliere il turismo religioso.
Il punto è che a La strada dei miracoli si mette in scena il bisogno dei medesimi piuttosto che la loro “autenticità”. E quindi il filo piuttosto che le meraviglie del soprannaturale è dato dalle “storie vere” di vite che avendo fede rinforzano innanzitutto quella in se stessi, nonostante incidenti e malattie da sfidare la sopportazione di Giobbe.
La redazione prende sul serio sia i miracoli che la loro confutazione, stando solo attenta a non usare mai la chiave dell’ironia perché questa, come si sa è interdetta quando c’è di mezzo la fede o la passione (si pensi ai talk calcistici) e riesce così a tenere i piedi nelle due staffe: da un lato la rivisitazione dei luoghi comuni miracolistici (voci, profumi, apparizioni, esorcismi, guarigioni etc); dall’altro la loro costante messa in dubbio. Da qui, nei titoli, l’abbondante ricorso ai punti interrogativi: la Sindone è quella vera? Il demonio esiste? La malattia era autentica? Etc etc.
Questo (saggio o astuto, fate voi) stare sul filo del rasoio fra fideismi e incredulità è seguito da un pubblico di dimensioni discrete (attorno al 6%, più o meno come quello che sulla stessa rete segue Quinta Colonna) composto da spettatori decisamente anziani, parimenti distribuiti da Nord a Sud e senza forti dislivelli di scolarità. E cioè, se si prescinde dalla concentrazione generazionale, un pubblico adeguatamente “generalista”. Tanto per dire che la tv dei primi tasti del telecomando, quella storica in cui ti imbatti anziché andartela a cercare, possiede un suo spazio di progettazione che non pare destinato a scomparire tanto presto, Netflix o non Netflix.