Uscito agli inizi di maggio, Wilder Mind, il nuovo disco dei Mumford and Sons, band folk-rock inglese che con i primi due album, in tempi di vacche magre per l’industria discografica, ha venduto oltre 6 milioni di copie, ha spiazzato e fatto storcere il naso a molti. A giudicare dai commenti sui vari social, più ai fan, però, affezionati al loro sound acustico e country-folk, che ai critici e discografici entusiasti dell’improvvisa svolta intrapresa.
Il motivo? Il gruppo guidato da Marcus Mumford, ha abbandonato banjo e ballate acustiche per una svolta elettrica, contaminando la loro musica con elettronica, synth e drum machine, diventando simile a tante altre band. Ma è la globalizzazione del suono, bellezza! Quel che vende, e che entra direttamente in classifica non si discute. Si scopiazza tutt’al più! Eppure, i Mumford and Sons vendevano anche prima di questo cambio di registro…
Con l’album d’esordio Sigh No More, del 2009, forgiano ballate ruspanti che sembrano provenire da un’altra epoca, con quelle potenti armonie vocali, i tamburi che annunciano energiche raffiche di banjo, l’incedere del contrabbasso su morbidi tappeti d’organo: in breve tempo diventano il fulcro della scena del nuovo folk inglese. Babel, uscito nel 2012, ne garantisce una certa continuità, e conferma tutto quel che di buono è stato detto fin dalla loro comparsa.
Wilder Mind, registrato presso gli Air Studios di Londra e prodotto da James Ford, uno che ha lavorato con Arctic Monkeys eFlorence and The Machine, e che ha sostituito Markus Dravs, spezzando una certa tradizione, è composto da 12 nuove tracce, alcune scritte con Aaron Dresner dei The National in un garage studio di Brooklyn. E la spiazzante somiglianza con il gruppo statunitense, in qualche modo, trova giustificazione.
“Tutto è successo un po’ per caso e un po’ per decisione consapevole – hanno dichiarato i Mumford and Sons –. Verso la fine del tour di Babel (il disco precedente, ndr) suonavamo sempre nuove canzoni durante il soundcheck, e in nessuna c’era spazio per il banjo o per una kick-drum. Non ci siamo mai detti: no strumenti acustici, ma penso che ognuno di noi avesse in sé il desiderio di fare qualcosa di diverso. Il nostro modo di scrivere non è cambiato drasticamente, si è solo fatto guidare dal desiderio di non fare ancora la stessa cosa. In più ci siamo innamorati della batteria, semplicemente!”.
Marcus Mumford descrive questo nuovo disco come “uno sviluppo, non un distacco”, mentre secondo il tastierista Ben Lovett. “È stata una cosa completamente naturale, come quando abbiamo cominciato a suonare. È stata una cosa tipo: qualcuno suonava una chitarra elettrica, la batteria si aggiungeva per completare il suono al meglio, e dal punto di vista del suono aveva senso aggiungere un synth o un organo. Abbiamo scelto strumenti che suonano bene tra loro, senza cercare a tutti i costi di cambiare”.
Dopo gli esaltanti concerti che hanno sempre registrato il tutto esaurito in Italia, i Mumford and Sons saranno impegnati per tre date anche nel nostro paese. Il 29 giugno suoneranno all’Arena di Verona, mentre il 30 giugno si esibiranno nell’ambito del festival Rock in Roma e il 1 luglio al Pistoia Blues. ViVe Le rOcK!