di Luca Boneschi*
Ho più di 50 anni di professione alle spalle. Ho visto nascere il nuovo diritto del lavoro e ho vissuto le oscillazioni delle decisioni dei giudici nei casi più complessi, ma raramente mi sono sentito così a disagio di fronte a leggi così come mi è accaduto con il Jobs Act. In particolare per quanto riguarda la nuova regolazione della disciplina dei licenziamenti.
Se al demansionamento facile aggiungiamo il cosiddetto contratto “a tutele (de)crescenti” (d.lgs.n. 23/2015), in sigla Ctc il quadro delle difficoltà cui si sta andando incontro prende colorazioni insidiose, accentuate da una marginalizzazione del giudice perché la sua indipendenza risulta scomoda.
Cos’è il Ctc, che regola i rapporti di lavoro nati dal 7.3.15 in poi?
Ecco le nuove regole: il licenziamento di un lavoratore (tutti a eccezione dei dirigenti) assunto a tempo indeterminato dopo questa data che il giudice dovesse dichiarare illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo comporta sempre la risoluzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità di due mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro.
Le tutele sono tutte qui e non crescono: se vengo licenziato illegittimamente dopo un anno prendo quattro mensilità, dopo due sempre quattro, e poi per ogni anno ulteriore si aggiungono due mensilità, ma dopo dodici anni di lavoro le mensilità non aumentano più. In questo modo si vuole risarcire il lavoratore per l’illegittimità del licenziamento. Il che, tradotto in pratica, significa che il datore di lavoro può licenziare senza motivo pagando questa sorta di “penale” molto contenuta, peraltro dopo avere in molti casi usufruito dello sgravio contributivo.
E il giudice? Rischia di dover solo prendere la calcolatrice e fare le moltiplicazioni (un po’ complicate se uno ha lavorato, per esempio, tre anni e sei mesi, perché la frazione di anno non vale uno ma – nell’esempio fatto – solo mezzo, e via così).
Avremo una giustizia rapidissima, vedrete, e di grande efficienza.
E sapete perché?
Se anche il giudice non dovesse usare la calcolatrice ma la sua intelligenza (cosa che potrà fare solo di fronte a un licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, così stabilisce la nuova legge), se non è “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” al nostro giudice del lavoro è “preclusa” – cioè impedita – qualsiasi valutazione circa la non proporzionalità della sanzione (il licenziamento) rispetto al fatto contestato (magari una violazione minima del contratto, come un ritardo nell’orario di lavoro).
E questo potrà succedere anche se il contratto collettivo prevede, per quella violazione, una sanzione disciplinare diversa e inferiore al licenziamento (per esempio una multa).
Chi dovrà provare direttamente l’insussistenza del fatto materiale contestato? Ma è ovvio: il lavoratore, anche se i principi del processo vorrebbero il contrario. Perché mentre il datore di lavoro non avrà grandi problemi a provare il fatto contestato, sarà il lavoratore a dover provare che la contestazione è falsa, che il fatto non esiste. Chiunque abbia un po’ di pratica di cause di lavoro sa come vanno queste cose, specialmente adesso che le tutele dell’art. 18 dello Statuto non sono più solide come prima: ci saranno testimoni che avranno paura.
Di fronte a questa regola, l’art. 18 riformato dalla legge Fornero che tanta preoccupazione ha suscitato, brilla come baluardo di garanzia per i lavoratori, perché lascia al giudice il potere di valutare la proporzionalità tra violazione disciplinare e sanzione.
Ci sono tanti altri aspetti da approfondire: come si calcola la mensilità/indennità? Cosa succede se un’azienda con 15 dipendenti assume altre persone con un Ctc e supera il fatidico limite di non applicabilità dell’art. 18? Quali regole si applicheranno ai rapporti di lavoro a termine “convertiti” in lavoro a tempo indeterminato? E altre norme che renderanno sempre più improbabile il ricorso al giudice: la cosiddetta “conciliazione facile”, esentasse e senza contributi, in misura già fissata (1 mese per ogni anno di servizio, minimo 2 mesi e massimo 18) che il datore di lavoro può offrire mediante assegno circolare.
Due precisazioni finali: rimane vivo il principio che il licenziamento discriminatorio e quello orale sono nulli e comportano il diritto alla reintegrazione. E soprattutto, di fronte a questa grottesca controriforma non tutto è perduto: si tratta di costruire il nuovo diritto del lavoro, utilizzare tutti gli spazi che queste norme lasciano (e ne lasciano) nonché ricordarsi che c’è sempre la frode alla legge cioè un limite invalicabile alla irragionevolezza di certi comportamenti.
* Mi sono sempre occupato di diritto del lavoro, specialmente per i giornalisti e il loro sindacato. Ho fatto anche molto diritto penale, campo che però ho da tempo abbandonato. Ho diretto per 10 anni la Scuola di alta formazione in diritto del lavoro dell’Agi Avvocati Giuslavoristi Italiani perché mi piace insegnare ai giovani e provare a trasmettere esperienza, veder crescere generazioni preparate e agguerrite, magari appassionate, con buona preparazione teorica e non solo fatta sul campo. Sono sposato e ho una figlia, vivo e lavoro a Milano.