Pur di accaparrarsi una manciata di voti non si fermavano davanti a nulla ed erano pronti a raschiare il fondo del barile: posti di lavoro, anche se precari, nei progetti finanziati con i fondi europei, vere e proprie elemosine in denaro a partire da cinque ero per ciascuna preferenza, e persino derrate alimentari assegnate da associazioni di volontariato agli indigenti che venivano trasformate in ”regali” promessi a chi assicurava il proprio consenso nell’urna. E’ lo squallido mercato del voto che secondo l’ultima indagine della procura di Palermo avrebbe caratterizzato la campagna per le regionali dell’ottobre 2012 in Sicilia: l’arrresto è scattato per due deputati del parlamento siciliano, Nino Dina (Ucc) e Roberto Clemente (Pid), per un candidato non eletto, Franco Mineo (Grande Sud) e per un dipendente dell’Azienda municipalizzata dei Trasporti, Giuseppe Bevilacqua, trombato alle elezioni comunali del maggio di quell’anno, e indicato come il collettore dei voti presso esponenti mafiosi delle borgate palermitane. Cinque indagati, tutti ai domiciliari, compreso il pesce più piccolo dell’inchiesta: il maresciallo della Finanza Leonardo Gambino, l’unico accusato di ”corruzione propria” per aver fatto favori a Bevilacqua con l’obiettivo “sistemare” un figlioccio in cerca di un impiego.
L’accusa per tutti gli altri è di corruzione elettorale, nell’ambito di un’inchiesta sullo scambio di voti che non ha potuto far ricorso, in nessun caso, all’articolo del codice penale che sanziona proprio il voto di scambio. Non per nulla l’aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, che ha coordinato l’indagine, dopo aver fatto notare come il livello morale di questa classe dirigente abbia raggiunto ”un livello inqualificabile”, ha evidenziato l’impossibilità di veder riconosciuta l’applicazione dell’articolo 416 ter nella nuova formulazione approvata dal parlamento il 16 aprile del 2014: quella cioè che oltre alla dazione di denaro punisce chiunque accetti consapevolmente il procacciamento di voti con il metodo mafioso, anche in cambio di ”altre utilità”. Qui le altre utilità erano impieghi, anche precari, che in tempi di spending review sono già qualcosa, e soprattutto pacchi di pasta e buste colme di generi alimentari destinate ai poveri. Ma non è bastato.
I pm Francesco Del Bene, Anna Maria Picozzi, Amelia Luise e Dario Scaletta avevano invocato l’arresto per 416 ter nei confronti di Bevilacqua e altri 23 indagati: oltre all’uomo che direttamente contrattava con la base elettorale, la richiesta della misura restrittiva per voto di scambio riguardava altri personaggi, alcuni dei quali presunti mafiosi, coinvolti nell’indagine come ”portatori” della promessa di voto. Il gip Ettorina Contino, però, ha giudicato le condotte sotto accusa temporalmente precedenti all’ultima formulazione del 416 ter, e comunque non bastevoli a dimostrare la consapevolezza del ”metodo mafioso”: così ha bocciato sia la contestazione del reato che la richiesta di custodia cautelare per tutti coloro che avevano fatto mercato del consenso elettorale, assicurando o accettando vantaggi più o meno miseri. “Non è stato riconosciuto il voto di scambio politico-mafioso- ha precisato Teresi- e l’agevolazione ai mafiosi, perché il giudice ha considerato che la legge attuale è più favorevole all’imputato”.
Così, pur avendo scoperchiato quello che Teresi ha definito “lo spaccato classico del rapporto tra mafia e certa politica che continua a cercare le cosche per ottenere appoggio elettorale“, la procura di Palermo ha visto depotenziata un pezzo della sua inchiesta e ha potuto contestare a Bevilacqua, che secondo le intercettazioni aveva raccolto direttamente manciate di voti presso l’elettorato mafioso e le aveva messe a disposizione degli amici in corsa per l’Ars, solo l’articolo 86 d.pr. 370 del 1960 (applicato per le elezioni amministrative), e l’articolo 96 d.pr. 361 del 1957 (applicato per le elezioni nazionali, alle quali sono equiparate le regionali in Sicilia): due vecchie norme, persino precedenti all’istituzione della prima Commissione Antimafia, che configurano l’ipotesi della cosiddetta “corruzione elettorale”, un reato che prevede una pena inferiore ai tre anni, e dunque permette all’indagato di usufruire della custodia domiciliare.
Un trattamento troppo lieve per Teresi che, senza peli sulla lingua, equipara il politico che si rivolge ai mafiosi “a chi mette bombe o usa il tritolo. Sono gli stessi mafiosi, ed è la stessa mafia”. E poi denuncia “la concezione alla base delle norme sul nuovo voto di scambio, che distrugge tutto ciò che è stato fatto negli ultimi venti-trenta anni contro la mafia e il suo potere elettorale. Non è ammissibile che ogni volta ci si debba chiedere di dimostrare il metodo mafioso”. Sara la nouvelle vague del Nazareno. Sarà il nuovo garantismo di casa Pd che, alla faccia di tutti i codici etici, ha sdoganato gli “impresentabili” a suon di baci. Il risultato è che la riforma del 416 ter, teoricamente pensata proprio per colpire lo snodo mafia-politica nel suo punto più nevralgico, ovvero la possibilità di liberare la scelta elettorale dal condizionamento criminale, non funziona. Anzi, rende più arduo per gli inquirenti il contrasto ai tentativi di infiltrazione mafiosa nel mondo della politica, pur quando si ha la fortuna di captare intercettazioni inequivocabili. E’ il senso di Renzi per la mafia: un tweet sulla strage di Capaci (”io non dimentico”), un paio di ministri spediti a Palermo a far passerella per le commemorazioni di rito. E più non dimandare.
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro #ionondimentico
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 23 Maggio 2015