Nonostante l'Abenomics continui a produrre dati incoraggianti - la borsa “vola” ai massimi degli ultimi 15 anni e la disoccupazione (anche se questo dato è da sempre fonte di perplessità comparativa visto il modo in cui viene calcolato) scende dal 5.5% al 3.5% – i ragazzi non sembrano essere particolarmente coinvolti. Su internet si moltiplicano i siti dedicati a chi vuole togliersi la vita. Ma il fenomeno continua a essere sottovalutato a livello governativo, scolastico e familiare
Per il terzo anno consecutivo, esattamente da quando il numero totale ha cominciato a calare, il suicidio è la prima causa di morte tra i giovani giapponesi compresi nella fascia d’età tra i 15 ed i 24 anni. Si tratta di un “record”, se così vogliamo chiamarlo, assoluto: in tutti gli altri paesi del mondo industrializzato i giovani di quell’età perdono la vita per un’altra causa, gli incidenti stradali.
Alla faccia dell’Abenomics, si potrebbe facilmente infierire. Mentre la borsa “vola” ai massimi degli ultimi 15 anni e la disoccupazione (anche se questo dato è da sempre fonte di perplessità comparativa visto il modo in cui viene calcolato) scende dal 5.5% al 3.5% – roba da farci sognare ad occhi aperti – i giovani giapponesi, sempre più soli, abbandonati e/o iperprotetti, ma soprattutto demotivati, si tolgono la vita. I dati parlano chiaro. Mentre il numero complessivo dei suicidi è calato, negli ultimi tre anni, da 40 a 31 ogni 100 mila abitanti, quello relativo ai giovani è balzato da 14 a 23, un aumento pari quasi al 50%. E non pensiate che c’entri Fukushima e la relativa emergenza nucleare. Anche in quella “zona” i suicidi purtroppo ci sono, ma riguardano soprattutto gli anziani. Non i giovani, che da quella zona maledetta se ne sono già andati e, purtroppo per loro, probabilmente mai ci ritorneranno.
Ma perchè – aldilà del contesto etico che in un Giappone “laico” considera il suicidio un’opzione più che accettabile – i giovani giapponesi si tolgono la vita? Il fenomeno, che anziché essere pubblicamente discusso continua ad essere volutamente sottovalutato (sia a livello governativo che scolastico e familiare) era stato previsto già qualche anno fa da Noritoshi Furuichi, un autorevole sociologo la cui parabola mediatica è stata inversamente proporzionale al suo successo editoriale. Quando nessuno lo conosceva, lo si vedeva sempre in tv, poi, appena pubblicato il suo controverso saggio Zetsubo no kuni no kofuku na wakamonotachi (“La gioventù felice di un paese disperato”) è sparito. Ma quello che ha scritto nell’oramai “lontano” 2011, resta drammaticamente attuale. “I nostri giovani sono tra i più felici al mondo. Mai stati così felici. Non troveranno, anche se pochi lo sanno e se ne preoccupano, mai più un lavoro fisso, né potranno contare su una pensione. Ma se ne fregano. Iperprotetti dalla ricchezza accumulata dai loro genitori e dai loro sensi di colpa che ne hanno allentato, fino ad eliminare, ogni tentativo di imporre una leadership etica e morale, facilitati dalla deflazione che rende facilmente accessibile cibo, vestiario e divertimenti vari, e immersi nel mondo virtuale di internet che soddisfa, senza esporli a rischi che non vogliono e non potrebbero sopportare, ogni esigenza di “intrattenimento” passivo, arrivano al capolinea più in fretta dei loro coetanei nelle altre parti del mondo. Molti si fermano. Molti cercano di tornare indietro. Ma molti si tolgono la vita”.
Conosco un caso specifico. Il figlio di una coppia di insegnanti, amici di lunga data, è uno di questi giovani. Dopo essere uscito – i genitori speravano definitivamente – da una lunga depressione che l’aveva costretto ad oltre un anno di hikikomori (sorta di autoimposto “ritiro” dalla società, che nei giovani consiste nel chiudersi nella loro camera anche per lunghi periodi, senza mai uscirne, spesso “coperti” da famiglia e istituzioni scolastiche: fenomeno ancora molto diffuso e anche questo, dopo una iniziale sovraesposizione, oramai ignorato dai media ) era tornato a scuola e si era diplomato. Il giorno dopo la cerimonia ufficiale di consegna del diploma – momento molto importante nella società giapponese, e alla quale i genitori avevano partecipato, felici e ignari della tragedia alle porte – si è suicidato. Il tutto, mi hanno raccontato i genitori, era stato programmato da mesi. Grazie ad un sito, “2 channel”, che tra i suoi vari “servizi” ne offre anche uno dedicato ai potenziali suicidi. Che spesso si organizzano collettivamente per portare a termine il loro piano. Rigorosamente anonimo, basta inventarsi un log-in, inserire alcuni dati (età, sesso, data in cui vorrebbe organizzare l’“evento”, eventuali preferenze per luogo, modalità etc): nel giro di pochi minuti c’è subito qualcuno che si accoda. Curioso, come in una società dove oramai fanno fatica ad “interfacciarsi” nella realtà, i giovani trovino il “coraggio” (perchè comunque ce ne vuole) e al tempo stesso siano così “disperati” e fragili dal farlo virtualmente, cercando la compagnia di estranei per l’addio alla vita.
Ripeto, qui non si tratta dei dati complessivi sui suicidi in Giappone. Dopo il “picco” della fine degli anni ’90, quando a causa della lunga recessione e della socialmente cruenta “ristrutturazione” del mercato del lavoro il numero dei suicidi superò per la prima volta il numero di 30 mila l’anno (uno ogni 20 minuti, più o meno), il dato complessivo è in calo. E questo, come abbiamo sottolineato all’inizio, anche grazie ad un “pacchetto” che il passato governo riuscì ad approvare e che prevedeva, oltre al rafforzamento dei servizi sociali e di “sportelli” pubblici di assistenza/consulenza, anche un forte “richiamo” alle compagnie di assicurazione, uniche al mondo a prevedere risarcimenti anche in caso di suicidio, di rivedere, rendendo quanto meno più stringenti ed onerose, questo tipo di polizze (“richiamo” solo in parte raccolto: le polizze esistono ancora, anche se molte prevedono un minimo di anni per rendere esecutiva la clausola del suicidio). E nemmeno degli effetti della triplice catastrofe del 2011, quando terremoto, tsunami ed emergenza nucleare colpirono pesantemente non solo l’economia, edifici ed infrastrutture, ma anche lo yamato tamashi, il fiero e indomabile “spirito” giapponese, che rende questo popolo così forte e socialmente resiliente di fronte alle tragedie e alle catastrofi che periodicamente lo colpiscono. No, qui si tratta di ben altro. E forse di molto più preoccupante.
Nonostante l’Abenomics continui a produrre dati incoraggianti – anche se oltre al balzo della borsa e l’aumento dell’offerta di lavoro, rigorosamente precaria, restano il calo dei salari, il cui indice reale è sceso, nel 2014, del 2.7% rispetto all’anno precedente – i giovani non sembrano essere particolarmente coinvolti. Né interessati. E questo dovrebbe preoccupare un governo attento, come quello di Abe continua a sostenere, al “benessere” dei suoi cittadini.
In effetti, tempo fa, il premier Shinzo Abe, in un discorso dedicato all’esigenza di dare nuove motivazioni ai giovani studenti (aumentando le ore di “educazione patriottica” anziché quelle di storia, decisamente più necessarie) se ne è uscito affermando che uno degli antidoti più efficaci all’attuale “disorientamento” dei giovani è ricostruire l’orgoglio nazionale, leggi, nazionalismo. Uscire dall’isolamento internazionale, dal senso di colpa che alcuni paesi (Cina e Corea, soprattutto) continuano ad imporre e far pesare anche ad una generazione obiettivamente incolpevole, rivendicare un ruolo “politico” e perché no, anche militare commensurato alla potenza economica del paese, che pur oramai superata dalla Cina, è pur sempre la terza economia mondiale. Basterà? Difficile. La “malattia”, il disagio esistenziale dei giovani giapponesi è molto diffuso, e contagia anche le forze armate. Proprio in questi giorni, durante una seduta parlamentare, è saltato fuori un dato inquietante: tra i “reduci” delle truppe inviate a suo tempo – e tra mille polemiche – in Iraq e altre operazioni di “pace”, ben 54 (su un totale di circa 800) si sono, al loro ritorno, suicidati. Un dato impressionante, se si pensa che queste operazioni hanno provocato solo tre vittime per cause di servizio. E tutte per incidenti, non in conflitto armato. Un tasso più alto dei loro “colleghi” Usa, che peraltro denunciano un altissimo numero di vittime “in azione”. Segno evidente che l’opzione militare – per fortuna – in Giappone non paga.
Anziché solleticare pericolosi – ma fortunatamente poco condivisi – istinti revanchisti, Shinzo Abe ed il suo governo farebbero bene ad aggiungere un’altra freccia alla feretra oramai semivuota dell’Abenomics. L’attenzione per la società, per il welfare, materiale e “spirituale”, dei cittadini. In particolare per la fascia più debole e bisognosa: i giovani. Meno elmetti, e più consultori. Meno generali, e più psicologi.