"Non tutti i pazienti hanno le indicazioni al trattamento con il caschetto - spiegano all'Istituto europeo di oncologia- perché il successo è legato alla tipologia e al protocollo chemioterapico, alla dose, al tempo di infusione e alle caratteristiche individuali della persona"
Un caschetto per salvare i capelli dalla caduta dovuta dalla chemioterapia. La sperimentazione iniziata all’Istituto europeo di oncologia di Milano su 30 pazienti sembra avere buoni risultati: “L’85% si è detto soddisfatto e non ha avuto bisogno di parrucche”, riferisce Paolo Veronesi, direttore di Chirurgia senologica dell’Irccs di via Ripamonti, che ieri a Milano ha condotto l’edizione 2015 di Ieo per le donne, evento ideato dal padre Umberto 8 anni fa per raccontare le storie di chi lotta per vivere.
“Come potete tutti vedere i miei capelli hanno retto alla grande – dice la ragazza rivolgendosi all’affollata platea, in gran parte femminile ma non solo – È una cosa importante non soltanto per l’estetica, ma per sentirti come prima. Per fortuna, infatti, tra una seduta di chemio e l’altra ci sono giorni in cui stai bene e vuoi vivere come sempre. I capelli aiutano a riconoscersi oltre la malattia”.
Il caschetto salva-chioma si indossa prima, durante e dopo la chemio, e “in Ieo siamo i primi e gli unici in Italia a valutare questo modello – precisa Veronesi Jr – Funziona raffreddando il cuoio capelluto grazie a un avanzato sistema refrigerante al quale è collegato. Inducendo una vasocostrizione il freddo diminuisce la perfusione di sangue e il metabolismo, frenando localmente l’attività distruttiva del farmaco sui bulbi piliferi”. Un’idea non nuova, ammette il chirurgo: “Risale alla metà degli anni ’60, però i risultati ottenuti con diversi tipi di copricapo finora sono stati poco soddisfacenti”.
“Va detto – puntualizza l’esperto – che non tutti i pazienti hanno le indicazioni al trattamento con il caschetto, perché il successo è legato alla tipologia e al protocollo chemioterapico, alla dose, al tempo di infusione e alle caratteristiche individuali della persona. Dopo il primo gruppo pilota – conclude – continueremo a studiare questo strumento per perfezionarlo ed estenderne al massimo l’utilizzo”.