Il rocker si racconta in un'intervista prima del concerto-prova di Castellaneta Marina, in provincia di Taranto. Il 7 giugno, infatti, inizierà Vasco Live Come 015, una tournée estiva negli stadi italiani
La formula è semplice, così semplice ed evidente da apparire incomprensibile; o meglio: non replicabile; una sorta di “Coca Cola” svelata dallo stesso Vasco Rossi: “Le mie canzoni nascono così, sono un’analisi delle emozioni, tutto parte da una frase, poi piano piano esce fuori il resto. Se sapessi spiegarle farei un altro mestiere, invece vanno ascoltate e basta. Sapete cosa mi colpisce? Vedere i ragazzi cantare, ridere o piangere mentre canto pezzi di trent’anni fa come Vita spericolata”.
Non esagera. Ovunque, da San Siro per un concerto, all’incontro casuale, fino a ora, giù in Puglia, dove sta preparando la tournée, è sempre la stessa storia: quando lo vedono urlano, lacrime, autografi sugli oggetti più improbabili (e improponibili), intonano cori, srotolano striscioni, murales, lo seguono ovunque. Ovunque.
Castellaneta Marina, provincia di Taranto, l’acciaieria non è lontana, le ciminiere segnano il confine tra cielo e terra; qui, da alcuni anni è il buen retiro di Vasco Rossi, il luogo dove corre, mantiene una dieta, si concentra, studia la scaletta, convoca la ciurma, prepara la stagione di concerti. Anche quest’anno sono tutti lì, da Vince Pastano a Will Hunt; da Alberto Rocchetti a Claudio Golinelli. Per loro via ogni concetto, stilema o immagine evocativa di una rock band da Anni Settanta, giusto qualche maglietta stracciata, accenni di borchia, il piacere di sorridere a una donna, o la sigaretta di sbieco sulle labbra. Basta. Il resto è musica. Il resto è Vasco. Il resto sono i fans. Entrano nella hall dell’albergo, lo aspettano ogni mattina per un autografo o un benedetto selfie; idem dopo pranzo, idem ancora dopo. Quindi tutti i giorni a centinaia si radunano fuori dalla discoteca dove la produzione ha organizzato le prove, così numerosi da rendere necessaria la presenza della sicurezza, i classici energumeni vestiti di nero, torniti di muscoli.
“In questo periodo sto leggendo Jung, voglio capire – racconta Vasco – Anzi, da ragazzo volevo, diventare psicanalista. E forse un po’ lo sono, spesso i ragazzi mi ringraziano per le mie canzoni, mi dicono ‘con i tuoi pezzi ci aiuti ad andare avanti, ad accettare la vita’. Mi fa piacere. Quando una canzone ti colpisce, ti commuove, a quel punto vuoi bene anche a chi l’ha scritta, anche se non se lo merita. E poi la mia generazione (sottinteso “quelli come me”) doveva morire negli Anni Ottanta, non ero pronto ad andare avanti. Dopo canzoni come Ogni volta o Siamo solo noi, cosa potevo scrivere”. In teoria nulla. In teoria. “Per questo mi sono fermato, non scrivevo più, ero stordito, poi sono stato lasciato da una donna e all’improvviso, mentre strimpellavo la chitarra, tutto è ripartito. E siamo ancora qui”.
Ore 17 inizia lo show. Camicia jeans aperta, maglietta nera, scarpe da ginnastica, bandana infilata nei pantaloni, occhiali da sole, passo ondulante, braccia tese, anche durante le prove non si scherza, si muove come se davanti avesse il “muro” di San Siro e non quattro gradoni di una discoteca. Dopo la prima canzone entrano un centinaio di fan, quasi increduli, hanno il Vasco in privato e a pochi metri, la band al completo, il suono rodato, cantano ogni nota. Ovviamente piangono. Alessia, 21 anni, studentessa, tra un singhiozzo e un fazzoletto, racconta: “Sono la terza generazione, prima mia zia, poi mia cugina e da quindici anni io. Sembra conoscermi, mi entra dentro”. Sniff, sniff, si asciuga il naso.
“Il concerto è diviso in tre parti (previste 14 date in otto città, l’esordio a Bari il 7 giugno): si inizia con i brano del nuovo disco, quindi una parte centrale unplugged, quindi i successi storici”, tra questi anche la Noia, “forse il pezzo al quale sono più legato, parla della provincia, di due amici, e del ritorno nel luogo dal quale si è partiti”. O fuggiti.
La malattia è lontana, la strizza no, “soprattutto quando per tutta la vita non sei mai entrato in ospedale, poi all’improvviso ci finisci dentro per sei mesi. Oh, prima non avevo mai avuto nulla! Ma ora sono qui, e gli stadi non li voglio lasciare, non mollo, ho paura di perdere l’abitudine, e non voglio perderla. Amo sentire questa sensazione vicina”. Mentre è lontana la politica, lontanissima, un vero vate non si può troppo avvicinare la quotidianità, bene mantenere la giusta distanza, parola di Mazzacurati, giusto toccare piano l’argomento sui matrimoni omosex “credo sia giusto”; sfumare su Papa Francesco, non toccare proprio l’argomento Renzi.
Quarto, o quinto brano della giornata, un must del suo repertorio, Credi davvero, anno di grazia 1982, quando cantava “non sono gli uomini a tradire, ma i loro guai”; dopo 30 e passa anni è ancora così, l’ha messa in scaletta, e quasi la grida a denti stretti. “Come nasce la scaletta di un concerto? Si va a pelle, alcune canzoni come Liberi Liberi non le ho inserite perché sono già dentro, sono già all’interno delle emozioni del concerto”. E poi la vicenda delle presunte dimissioni da rockstar. “Era una provocazione, mi sono dimesso solo da alcuni atteggiamenti, volevo tornare a essere un artista e basta, tutto qui. E poi ho solo 36 anni…” Trentasei anni di palco, da quando non c’era quasi nessuno davanti a lui, il primo addio con la Steve Roger Band, o i primi fischi: “In alcune occasioni sono anche sceso dal palco, e mentre cantavo tenevo il contestatore per il collo”.
Olè, olè, olè, Vascooo, Vascoooo, il coro infinito, ripetuto, quasi costante del pubblico.
Lui attacca con Deviazioni, poi si siede sullo sgabello ed è Nessun pericolo per te in versione acustica, pardon unplugged (“mi hanno detto che si dice così”); quindi il suo produttore, Guido Elmi, gli si avvicina, asciugamano sulle spalle, due parole, un consiglio.
“Nella mia vita ho avuto la fortuna di fare ciò che volevo – continua Vasco – non ho ceduto a nulla, a nessun compromesso, neanche commerciale. Mai. Ho cantato le canzoni che mi venivano. Se va bene, bene, altrimenti torno tranquillamente a casa”. Fine delle prove, è il momento dell’incontro con i giornalisti, le caramelle per la gola sul tavolino, il cappellino sempre in testa, niente occhiali da sole, meglio guardarsi negli occhi. E lui non distoglie mai lo sguardo. Quando parla è una raffica, sembra uno studente agitato all’università, uno studente preparato ma timoroso delle domande; quindi non si ferma quasi mai, racconta a lungo di come sarà il concerto, del perché e del come; palleggia la situazione, in fin dei conti lui è Vasco, e dopo 36 anni oltre al palco uno impara anche a galleggiare su taccuini e registratori. E poi, già nel 1983, cantava: “Una canzone per te, non te l’aspettavi eh! invece eccola qua, come mi è venuta, e chi lo sa, le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole (…) Ma le canzoni son come i fiori, nascon da sole, e sono come i sogni, e a noi non resta che scriverle in fretta perché poi svaniscono e non si ricordano più…”. La Coca Cola era già tutta qua.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2015