Al fermo di Louati ad aprile si aggiungono altri cinque tunisini tra Forlì e Ravenna partiti di recente, di cui quattro già morti in guerra; poi, tra le altre, le storie del marocchino Khalid Smina, residente a Imola e rimpatriato ad aprile; quelle di Neji Ben Amara, partito da Cervia, e Mustapha El Amri, diretti in Siria nel 2013 e 2014 e deceduti in combattimento. Il sociologo Allievi: "Personalità irrisolte"
La deriva combattente è illuminata dal riflesso del mare Adriatico. Con il fermo del tunisino Noussair Louati, avvenuto il 22 aprile scorso, nella sola provincia di Ravenna, sale a 8 il numero dei foreign fighters partiti per arruolarsi con l’Isis, o fermati un attimo prima di farlo. Dal 2008, si contano 12 combattenti legati alla Romagna. Spesso, spacciatori, lupi solitari e persone senza prospettiva. Andando a ritroso, a Louati si aggiungono altri cinque tunisini tra Forlì e Ravenna partiti di recente, di cui quattro già morti in guerra; poi le storie, tra le altre, del marocchino Khalid Smina, residente a Imola e rimpatriato ad aprile; quelle di Neji Ben Amara, partito da Cervia, e Mustapha El Amri, diretti in Siria nel 2013 e 2014 e deceduti in combattimento. All’angolo tra le vecchie strade della campagna romagnola e le nuove moschee, la polvere si alza sulle responsabilità. C’è chi se la prende con l’immigrazione, chi punta il dito sulla mancanza di controllo. Ma il trait d’union è più profondo. «Sono personalità irrisolte – spiega Stefano Allievi, sociologo, esperto di Islam e docente universitario –, che usano qualunque ideologia per esaltarsi e dare un senso alla propria vita. Nella maggior parte dei casi, di Islam non ne sanno nulla. Tre mesi prima di morire in Siria, un combattente inglese aveva comprato due libri su Amazon: Islam for dummies e Corano for dummies. L’Isis offre l’ideologia del califfato, dell’unico stato al mondo dove si combatte per la shari’a, che è come dire ‘il socialismo realizzato’. Se negli anni ’70 le Brigate Rosse avessero avuto un piccolo stato, quante persone in più sarebbero andate a combattere?».
Biografie confuse, quelle dei giovani combattenti partiti dalla Romagna, dai tratti simili. Soprattutto per la scelta di fabbricare un senso e un’alternativa al futuro con materiali scadenti. Una scelta compiuta ben prima dell’adesione alla jihad. “Loauti è un piccolo spacciatore di periferia come Coulibaly – prosegue Allievi –, che improvvisamente abbraccia una causa più grande di lui. Si aggiunge poi il forte elemento seduttivo dell’Isis per i musulmani. Il brand ha presa: vengono diffusi video con lo scopo di spaventarci, ma anche video meno conosciuti che invitano al combattimento narrando storie esemplari come quella di un convertito canadese, padre di famiglia“.
Qualcuno dice che le moschee non abbiano controllato abbastanza, che siano a loro modo responsabili. A Ravenna, città di antichi incroci bizantini, dietro alle fabbriche della zona artigianale delle Bassette, spuntano il minareto e la cupola turchese della seconda moschea più grande d’Italia. A Rimini, la piccola moschea nel centro di Borgo Marina è sempre troppo piccola per chi desidera pregare e sempre troppo problematica per i residenti; mentre a Faenza, per trovare la moschea, nella zona industriale, in fondo a un cortile, proprio dietro ad un meccanico che non si lamenta, devi sapere che esiste. “I tunisini partiti da Ravenna non sono gli unici – racconta Khemais, portavoce della comunità tunisina in città –, ma sono solo sbandati ed è meglio che vadano il più lontano possibile da qui. Neanche io capisco cosa succeda nelle loro teste. Probabilmente, qualcuno su internet fa loro il lavaggio del cervello. La moschea avverte sempre: l’Islam è per la pace, non per scagliarsi contro l’essere umano. L’Isis con noi non c’entra niente”.
Internet e i social network sono le onde che uniscono vite distanti anni luci, sulla cresta dell’oblio, che si auto-investono della nera missione di guerra. “Si può sempre fare meglio – conclude Allievi –, ma non è colpa delle moschee, al massimo potrebbero fare di più per denunciare. I musulmani cercano di rimontare vent’anni di propaganda salafita che non si è espressa nelle moschee, come molti credono, ma soprattutto via internet. Non è l’Isis che manda in giro i reclutatori, è la domanda che va a cercarsi l’offerta, come quando i giovani di tutto il mondo partirono per la guerra di Spagna nel ’36, attratti dalle brigate internazionaliste. Le regioni del centro nord sono più coinvolte solo per un banale dato demografico: l’immigrazione è maggiore, quindi anche la presenza di musulmani, quindi anche di esaltati. È anche giusto preoccuparsi, ma è importante distinguere tra militanti ed esaltati, come negli anni del terrorismo rosso in Italia. L’atteggiamento pacato e responsabile della Digos è corretto”.