Da infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale che attuano “un sistema integrato e moderno di gestione dei rifiuti urbani e assimilati”, a impianti che operano in aperta competizione tra loro, del tutto svincolati da una logica di sistema e asserviti puramente a quella dell’interesse economico. E’ bastato un bando di gara a far naufragare anche l’ombra delle “buone intenzioni” di cui è ammantato l’articolo 35 dello Sblocca Italia: razionalizzare la gestione dei rifiuti urbani, puntare all’autosufficienza, prevenire l’apertura di ulteriori procedure d’infrazione. Il decreto attuativo più importante – quello con cui presidenza del Consiglio e ministero dell’Ambiente avrebbero dovuto individuare la capacità di incenerimento dei rifiuti degli impianti in esercizio e quella da realizzare per coprire il fabbisogno residuo – non si è ancora visto (e sono passati 200 giorni dalla conversione in legge dello Sblocca Italia). In compenso è arrivato appunto il bando di gara con cui Ama Roma, l’azienda romana dei rifiuti, “offre” sul mercato poco più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani residui. Il contratto è di quattro anni e la base d’asta è di 140 euro a tonnellata tutto compreso, anche il trasporto. Sarà interessante capire chi e a quanto si aggiudicherà la gara al ribasso, perché è evidente che nel Far West Italia, più che razionalizzare la gestione dei rifiuti, si è scelta ancora una volta la strada del “laissez faire“, dove a vincere non è detto che siano gli operatori più efficienti. Quello che è sicuro è che milioni di tonnellate di rifiuti correranno per tutta la Penisola, magari per poi prendere la via dell’estero.
La mossa dell’azienda romana ha colto di sorpresa gli addetti ai lavori perché rappresenta una prima assoluta, che rischia di cambiare completamente il quadro di riferimento. Basti pensare che mentre il governo parla di “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale”, le autorizzazioni degli impianti e le tariffe di conferimento dei rifiuti vengono fissate su base locale. Nel caso dei rifiuti urbani, la tariffazione è regolata ed è diversa da impianto a impianto. Da cosa dipendono queste differenze? Secondo Paolo Giacomelli, direttore generale di Federambiente, che riunisce le aziende dei servizi d’igiene e risanamento ambientale, “le tariffe tengono conto dei costi di progettazione, degli investimenti effettuati, dei costi della gestione operativa e anche, almeno a livello teorico, dell’eventuale costo di smantellamento a fine vita. Nella pratica, però, non esiste uno schema unico, nazionale, per l’attribuzione dei costi”. Ciò significa che ogni Regione fa un po’ come le pare e gli stessi operatori possono più facilmente far valere il proprio punto di vista su base locale, specie se sono legati a doppio filo con la politica come le ex municipalizzate.
L’altra faccia della medaglia è che quelle tariffe le pagano i cittadini con le imposte locali (oggi la Tarsu) che coprono sia i costi di gestione, sia i costi di costruzione degli inceneritori. Restando alle cifre pure e semplici, con il buon esito della gara dell’Ama si potrebbe generare il paradosso che i cittadini romani che non hanno un inceneritore nel loro territorio e non hanno nemmeno le percentuali di raccolta differenziata dell’Emilia Romagna piuttosto che della Lombardia potranno smaltire i loro rifiuti urbani a un costo inferiore a quello che devono sopportare i cittadini delle Regioni più virtuose che si trovano pure a ospitare il maggior numero di inceneritori della Penisola. Logico che i cittadini non ne vogliano sapere. Altrettanto logico che i gestori degli impianti stiano facendo i conti per capire quanto può fruttare l’affare, ammesso che frutti.
I 25 impianti di incenerimento in esercizio si sono ripartiti 112 milioni di euro di incentivi
La questione della sostenibilità economica è infatti di grande importanza, ma è di difficile valutazione data la frammentarietà tariffaria e autorizzativa. Quello che è certo è che, tariffe a parte, tutti gli inceneritori a recupero di energia beneficiano (o hanno beneficiato) dei certificati verdi o di altre forme di incentivo. Fino al 2006 gli incentivi riguardavano il 100% della produzione, successivamente la quota incentivata è scesa al 51%, ma si tratta comunque di parecchi soldi: dai dati del Gse relativi al 2013 (gli ultimi disponibili), il mercato dei certificati verdi ha raggiunto un valore complessivo di oltre 3,5 miliardi di euro. Il grosso va alle fonti rinnovabili vere e proprie (idroelettrico, eolico, geotermico etc.), ma agli impianti che producono energia bruciando rifiuti sono stati comunque destinati più di 112 milioni di euro. A ripartirseli sono 25 impianti in esercizio sulla cinquantina di inceneritori censiti a livello nazionale. E chi non riceve incentivi oggi, ne ha avuti di ben più generosi in passato. Senza incentivi alla produzione di energia questi impianti potrebbero stare in piedi e reggere la concorrenza internazionale? Probabilmente no, a meno di elevare le tariffe di conferimento a livelli insopportabili per i cittadini, che in ogni caso i certificati verdi li pagano in bolletta.
Il fatto è che prima di pensare se costruire o meno un nuovo inceneritore, occorrerebbe realizzare e far funzionare tutte le infrastrutture necessarie alla raccolta e alla differenziazione dei rifiuti che ancora oggi, in diverse Regioni, finiscono direttamente in discarica. E a dirlo non sono solo gli ambientalisti, ma la stessa Federambiente che lamenta le enormi difficoltà che si incontrano per realizzare impianti di compostaggio dal Lazio in giù. “In Italia c’è un problema politico-culturale enorme sui rifiuti – dice Giacomelli – anche perché gli errori fatti in passato hanno minato la fiducia dei cittadini, rendendo molto difficile anche solo affrontare il tema della gestione. Il fatto è che se a Palermo si mettessero a separare l’umido, poi dovrebbero spedirlo a un impianto di compostaggio in Veneto con costi esorbitanti, perché in Sicilia, così come nelle altre Regioni del Sud, questi impianti non solo non ci sono, ma se non cambia qualcosa sarà anche difficile realizzarli in futuro”. In tutto questo, come del resto in tante altre cose, manca una visione complessiva, un’idea di Paese. La questione rifiuti è molto seria e andrebbe affrontata con più laicità, valutando dati alla mano cosa è meglio fare nel rispetto della salute pubblica e dell’ambiente. Filiere efficienti di riciclo e riuso possono generare grandi opportunità economiche e di lavoro, ma una parte residua – grande o piccola che sia – ci sarà sempre e non la si eliminerà certo facendo gli struzzi.