Diritti

Profughi, a Trieste l’accoglienza diffusa funziona. “Dimostriamo che il cambiamento si può gestire bene”

Negli appartamenti gestiti dal Consorzio Italiano di Solidarietà i richiedenti asilo vivono in gruppi di sei o sette persone, seguiti da un operatore. Irfan racconta: “Non sono venuto qui per elemosinare del cibo, ma per costruirmi un futuro". In Pakistan era un manager, ora studia l'italiano per trovare lavoro. Nasim, fuggito dall'Afghanistan: “In Grecia sono finito in prigione senza aver fatto nulla, qui seguo un corso per diventare pizzaiolo"

Nell’estremo nord est d’Italia, al confine con la Slovenia, la dinamica dei grandi centri profughi è stata rifiutata. Richiedenti asilo politico e rifugiati vengono fatti alloggiare in appartamenti dislocati nei diversi quartieri della città, a gruppi di 6-7 per alloggio, ognuno seguito da un operatore. In via Tor San Piero c’è uno dei cinquanta appartamenti gestiti dal Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), associazione che si occupa della gran parte dei migranti arrivati nel capoluogo giuliano, per lo più provenienti dalla cosiddetta rotta balcanica. Se altrove l’arrivo di migranti è sinonimo di allarme sociale, altrettanto non si può dire di Trieste, dove il calo demografico e il mercato immobiliare in crisi danno una mano al modello dell’“accoglienza diffusa”. “Trieste è la dimostrazione che, in questo modo, il cambiamento si può gestire bene”, afferma Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics.

“Qui tutto è normale”, dice Asadullah, afghano di 24 anni, quando gli si chiede come vive. Sembra strano in un contesto che sembra caratterizzato dall’eccezione e dall’emergenza. Eppure normale è l’appartamento in cui parliamo (e dove vive con altri cinque rifugiati), normale la palazzina nel centro città che lo contiene, così come normali sono i rapporti tra le diverse culture di chi abita qui. Insomma, la normalità funziona.

Il clima è cordiale, nell’attesa che arrivi l’operatrice i migranti scherzano tra loro in una lingua franca che alterna il dari (uno degli idiomi ufficiali dell’Afghanistan, che riesco a comprendere tramite la mediazione di un ospite) all’inglese e a un italiano abbozzato. Chi è appena arrivato in Italia, come Irfan (qui da 8 mesi), parla l’inglese: pakistano 24enne, cozza con lo stereotipo dell’immigrato. “Non sono venuto qui per elemosinare del cibo, ma per costruirmi un futuro”, ci tiene a sottolineare. Parla del conflitto fra sunniti e sciiti in Pakistan, da cui è fuggito, e della situazione del suo Paese, non troppo diversa da quella del vicino Afghanistan: “Non ci sono leggi, non c’è polizia, per non parlare dei mujaheddin… non si può vivere una vita normale senza servizi come scuole e ospedali”. In Pakistan lavorava nel management e ora sta studiando l’italiano in un corso organizzato dall’Ics, “perché se non conosco la lingua non posso trovare lavoro”. I rapporti con il resto della comunità cittadina, come confermeranno anche gli altri ospiti, sono buoni, al punto che Irfan descrive un episodio di razzismo vissuto personalmente come eccezionale: “Una volta in autobus un uomo anziano, rivolgendosi a una ragazza africana in modo stizzito, ha chiesto cosa fosse venuta a fare in Italia…”. Ma si tratta di eventi rari, riguardanti persone “che non sanno cosa siano i rifugiati politici e perché sono costretti a fuggire dai loro paesi”.

“Se sapessero il nostro passato non la penserebbero così”, gli fa eco Nasim, 24 anni, fuggito dall’Afghanistan quando di anni ne aveva soltanto 16. “Chi può volere, a quell’età, abbandonare la propria famiglia sapendo che non la rivedrà per anni, e forse mai più?”. Nasim è arrivato in Italia attraversando Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria e Slovenia, in un viaggio di migliaia di chilometri pieno di pericoli: “In Grecia sono finito in prigione senza aver commesso reati, solo perché non avevo documenti”, racconta. Qui invece la situazione è diversa: “Da quando sono arrivato in Italia sto andando a scuola per imparare la lingua, sto seguendo qualche corso – tra cui uno per fare il pizzaiolo – e da qualche settimana ho iniziato un tirocinio”. Non tutti sono così fortunati con il lavoro: la “normalità”, nella città dove la disoccupazione giovanile supera il 23%, è anche questo. E se c’è chi, come Famoudou, guineano di 33 anni, ha trovato un posto in un ristorante tramite l’Ics, altri Asadullah lamenta: “Qui tutto è fantastico, la città è bella e ho trovato dei buoni amici, l’unica eccezione è il lavoro che non si riesce a trovare”.

L’insofferenza nella popolazione, quando c’è, nasce da qui: “Abito davanti a uno di questi appartamenti – racconta Tommaso, triestino di 64 anni –, molti profughi passano le giornate camminando in giro. Se non c’è lavoro, cosa vengono a fare in Italia?”. Alla domanda se ci siano disagi, però, ammette: “Non si sente volare una mosca, sono seguiti da operatori e non danno problemi”. Morena, triestina di 34 anni, collega la situazione tranquilla alla particolare storia del capoluogo giuliano: “Trieste è una città dove nei secoli hanno convissuto diverse lingue, religioni e culture”. Quanto al modello triestino, aggiunge: “Se li metti tutti nella stessa struttura si crea un ghetto, e ghettizzarli significa anche fomentare la criminalità. Quando invece sono distribuiti nella città c’è una maggiore integrazione”.

Perché un modello del genere non viene adottato nel resto d’Italia? Ad azzardare una risposta è il presidente dell’Ics Schiavone: “Si preferisce vivere alla giornata: lo Stato non inserisce alcun elemento di programmazione di lungo periodo, mentre sappiamo che quello dei flussi migratori non è una situazione destinata a cambiare in tempi brevi”. Eppure i vantaggi del modello dell’accoglienza diffusa sono tutt’altro che trascurabili: “In questo modo le persone vivono per lo più autonomamente, non ci sono spese assurde come invece avviene per i centri di accoglienza”. Non si tratta dell’unico risparmio: “Siamo stati attenti a investire sulla qualità – continua Schiavone – tagliando il possibile delle spese di gestione e puntando sulla qualità dell’accompagnamento sociale e la professionalità degli operatori”. Ed è così che i famosi 35 euro quotidiani per rifugiato, stanziati per il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), vengono principalmente spesi in vitto, alloggio e personale: il “Sistema Odevaine” è lontano, non solo geograficamente, e basta dare un’occhiata agli appartamenti dove i rifugiati alloggiano per capirlo. Resta però un dubbio: a Trieste il mercato immobiliare è in crisi e la popolazione in calo, due elementi che rendono molto bassi i prezzi per gli appartamenti. Altrove ci sarebbero le condizioni economiche per replicare il modello triestino? “L’Italia è complessivamente in calo demografico – osserva Schiavone – e la situazione in moltissimi territori è quella degli appartamenti sfitti. La realtà descritta non è solo triestina, ma nazionale”.

Nei giorni seguenti l’approvazione dell’Agenda europea sull’immigrazione, si discute molto dei numeri (relativi e assoluti) della presenza di rifugiati sul territorio: “La realtà triestina sta funzionando nonostante l’aumento delle presenze: dal 2013 il numero degli ospiti si è quasi decuplicato, passando da 70 a 650. Nonostante ciò non ci sono problematiche nei rapporti col territorio”. E se l’incremento di ospiti continuasse in questo modo, la situazione rimarrebbe sostenibile? “Se la situazione italiana degli arrivi restasse quella attuale, sarebbe opportuno non aumentare il numero delle presenze a Trieste, perché altrimenti si crea uno squilibrio tra questa città e altre realtà italiane. Si tenga conto che qui i profughi corrispondono allo 0,3% della popolazione complessiva, mentre nelle altre realtà la percentuale è minore. Ognuno deve fare la sua parte, non bisogna abusare della disponibilità di una città”, conclude Schiavone.