Silvia se la rideva: “Ti pare che, se fosse vero, non sarei anch’io lì? Guarda, se hai ragione tu e Nanni mi ha fatto questo, è la volta che non lo faccio più amico”. E stavolta io a ridere, ben sapendo che lei, custode discreta e sorridente di tutti i suoi segreti, tic, manie, ubbie e follie, non avrebbe mai osato rompere con lui: l’aveva difeso sempre, per una vita, anche quando faceva lo stronzo più del solito (“Sai, Nanni non legge mai le recensioni dei suoi film, ma la tua su Mia madre gliel’ho letta a pezzettini al telefono, e gli è piaciuta, anche se non te lo dirà mai”). Nel tardo pomeriggio, quando ormai era ufficiale che gli italiani a Cannes non avevano vinto niente, neanche la coppa del nonno, il suo ultimo sms: “Visto Marcolì? Io non mento mai. Tu, piuttosto, sei un credulone. Non ti dico che hai visto troppi film, perché ne ho visti molti più io…”.
Questa era Silvia Bonucci, che ci è stata portata via giovedì pomeriggio a 50 anni da un incidente d’auto in Maremma, dove aveva raggiunto la mamma Marguerite e il suo cagnolino e li stava portando al mare sulla sua vecchia Punto. L’immortale Bonucci, non c’è più. Ci eravamo conosciuti nel 2002, davanti al Senato, nel girotondo promosso da lei, da Moretti, da Marina Astrologo e da Paolo Flores d’Arcais contro la Cirami, l’ennesima legge vergogna del governo Berlusconi.
Non s’è mai saputo chi avesse avuto per primo l’idea di quella proposta gioiosa, allegra, creativa, ai confini della naïveté e quindi efficacissima contro quel regime cupo e oppressivo che troppi oggi fingono di dimenticare. Ma il girotondo le somigliava troppo perché l’idea non fosse stata sua, in condominio con altre ragazze eccezionali di Milano (Marina e Ombretta Ingrascì e altre) e con i professori Paul Ginsborg e Pancho Pardi che manifestavano a Firenze. Lei stava dietro le quinte, non amava apparire, nascondeva il suo sorriso bello e la sua cascata di capelli ricci e biondi, e intanto dava concretezza e organizzazione alle idee, agli umori e soprattutto ai malumori di Nanni, che aveva svegliato la società civile col famoso urlo di piazza Navona, sul palchetto allestito da Nando dalla Chiesa, al cospetto di tutto il politburo centrosinistro: “Con questi dirigenti non vinceremo mai!”.
Fu quella, nei cinque anni del secondo governo B., l’unica vera opposizione, ovviamente vilipesa da destra e snobbata a sinistra (da quelli che, appunto, non avevano e non avrebbero vinto mai). Eppure Silvia non era un’attivista: era una vera intellettuale, anche se sarebbe arrossita nel sentirselo dire. Nata a Monza da madre francese (ferita gravemente nell’incidente di tre giorni fa) e padre maremmano, si era laureata in lingue alla Sorbona di Parigi e viveva a Roma, a Trastevere, dal 1988, lavorando come traduttrice, soprattutto nel mondo dell’arte e del cinema. Così aveva conosciuto Moretti (che l’aveva voluta nella parte di Carla ne La stanza del figlio) e tutti i grandi del cinema italiano. Aveva anche scritto tre romanzi molto belli: Voci d’un tempo, Gli ultimi figli e Distanza di fuga.
A gennaio, dopo la strage di Parigi, appena annunciammo che avremmo distribuito col Fatto il numero speciale di Charlie Hebdo, si era messa a nostra disposizione gratuitamente con Marina Astrologo e per due giorni era stata con noi in redazione a tradurre tutte le vignette e gli articoli. Con lo stesso entusiasmo, lo stesso impegno civile, la stessa intransigenza sorridente delle manifestazioni per la giustizia uguale per tutti. Guardandola ridere e lavorare sulle battute fulminanti e insanguinate dei satirici parigini, pensavo che brutto Paese è l’Italia, che ha dipinto per anni come trucidi e lugubri giustizialisti manettari i suoi cittadini migliori. Ma anche che bel Paese è l’Italia che, non si sa bene da dove né come, riesce ancora a partorire degli angeli laici come Silvia. Dai Silviolì, appena arrivi lassù organizza subito un bel girotondo. Ma, questa volta, tìratela un po’ e mettiti in prima fila. Così gli altri ti guardano e imparano come si fa.
Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2015