Divieto di caffè, parolacce, tabacco e droghe, vestiti eccentrici e sesso prima del matrimonio non fanno un atleta, anche se aiutano.
Per avere qualche certezza di successo in più a Brigham Young University (BYU), rigorosissimo ateneo americano di tradizione mormone, si sono assicurati le prestazioni di Giuseppe Vinci (secondo in prima fila da sinistra). Il 29enne milanese vive a Provo, nello Utah, dal 2008, quando capì che in Italia i massimi livelli della pallavolo non equivalgono al professionismo.

“Alle scuole medie i docenti non riuscivano a svitare la rete dal campo perché era fissata con dei bulloni – racconta via Skype – Ore e ore di bagher e schiacciate mi hanno fatto innamorare di questa disciplina fino a che, a 13 anni, un brutto infortunio alla caviglia mi ha costretto alla resa.  Nel frattempo mi ero trasferito a Casteggio, nel Pavese, dove mi fu affidata la panchina della squadra locale. Da quel momento non ho più smesso di allenare”.

É giovane e sveglio, si destreggia sia in campo maschile che femminile e il grande feeling con la tecnologia lo aiuta nella preparazione dei match. Tra gli allenatori della zona il suo nome inizia presto a circolare: le statistiche di Giuseppe e le sue analisi degli avversari sono molto richieste. In poco tempo entra nello staff di Pavia, in serie A2, poi va a Milano fino alla chiamata della nazionale azzurra e la spedizione a Pechino.

“Le Olimpiadi erano per me un sogno e un’ossessione, ancora ricordo la cerimonia inaugurale di Barcellona 1992 e Muhammad Ali ad Atlanta. Ero ai massimi livelli e amavo la pallavolo italiana, dove vincono squadre di provincia come Macerata o Trento e i tifosi sono sempre vicini alla squadra. Negli ultimi anni, però, più di una società ha avuto problemi di bilancio e io mi ritrovavo senza diversi stipendi e pieno di punti di domanda sul futuro. Volevo a tutti i costi rimanere in quel mondo e, su suggerimento di amici nel giro della nazionale americana, inviai curriculum e statini dell’università di Pavia a alcuni college americani”.

La candidatura riscosse successo, mentre la gente si organizzava per andare al mare Giuseppe era pronto all’imbarco per Salt Lake City. “Avevo scoperto lo Utah grazie a Forrest Gump, i panorami fantastici che fanno da sfondo alla parte finale della sua corsa provengono da lì. Scelsi la BYU perché ha corsi rinomati e squadre di pallavolo tra le più competitive d’America, con diversi titoli in bacheca tra uomini e donne”.

Da un punto di vista sportivo il passo indietro era notevole, ma prospettive diverse e più stimolanti si aprivano davanti a lui. Giuseppe si è da poco laureato in Business e ha festeggiato con il matrimonio, l’anno scorso è terminato con il raggiungimento di una doppia finale nazionale.

“Le stagioni maschili e femminili non si sovrappongono e io posso dedicarmi a entrambi i team – spiega – I primi anni sono stati duri, perché lavoro e studio mi imponevano ritmi alti. La sveglia suonava attorno alle 6 e facevo sessioni di palestra come gli atleti, seguivano le lezioni dalle 8 alle 12 e la preparazione degli allenamenti, infine il lavoro sul campo con i ragazzi per tutto il pomeriggio. Senza contare le trasferte, che comportano ore di aereo. Gestire il tempo qui è un’arte”.

Non capita spesso che lo stesso sogno si materializzi due volte, a Giuseppe Vinci è successo: divenuto collaboratore della nazionale femminile americana, nel luglio 2012 salì su un volo per Londra per vivere la sua seconda Olimpiade. Un’esperienza che gli regalò l’emozione di mettersi al collo un argento, “che poteva essere oro”.

Ora che gli anni del capo chino sui libri sono terminati, il 29enne lombardo ha trovato un altro modo di impiegare il suo tempo. La sua ultima fatica è reperibile in rete all’indirizzo volleymetrics.com, una startup che digitalizza i suoi 16 anni di esperienza sui campi da pallavolo.

“Funziona così – dice Giuseppe – allenatori e dirigenti delle squadre ci inviano i video delle loro squadre o di quelle avversarie, noi li analizziamo e diamo facile accesso a dati e filmati via internet. Negli Stati Uniti abbiamo una ottantina di clienti, tra cui squadre blasonate. Spero che un giorno il progetto mi dia la possibilità di tornare in Italia e restituire qualcosa al Paese che mi ha reso ciò che sono. Ho promesso di recuperare un po’ dell’accento milanese che ho perso in questi anni”.

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