Raccontare l’Iraq è complesso e pericoloso. Siamo pochissimi, e il nostro lavoro è spesso di denuncia e testimonianza, oltre che di informazione in senso stretto. Per questo, in via eccezionale, ho deciso di riproporre qui un testo che in Italia è già apparso su Internazionale: perché volevo fosse accessibile al più ampio numero possibile di lettori, e Km zero ha anche una versione inglese.
Non senti più niente, all’improvviso.
Non vedi più niente.
Ma sono solo sei, sette secondi. Poi, altrettanto all’improvviso, è tutto come prima. Lamiere divelte, cavi elettrici. Questo asfalto sconnesso, costellato di vetri, schegge, intelaiature senza porte, senza finestre. Perché tra il prima e il dopo, a Baghdad, quando esplode una bomba, tra queste case annerite da trent’anni di guerra, di tritolo, non c’è differenza. Solo, adesso, sparsi, mozziconi d’uomo. Stracci di carne. Questo tizzone d’auto che brucia.
E la vita ha questo modo strano di ricominciare subito, qui – o forse, di non interrompersi mai. Sono le 18.17 quando siamo scaraventati a terra, in Saadoun Street, in cui è in corso un pellegrinaggio sciita che è ogni anno martellato di attentati. Ma dagli altoparlanti, il canto del Corano va avanti, misto alle sirene delle ambulanze. Le urla di un padre. Si spazza via tutto, rapidi. Al banco alla tua destra già vendono di nuovo aranciate.
Così come si dilegua, rapida, anche l’attenzione del mondo. In rete girano uno, due tweet. Bomba a Baghdad, quattro morti. Sette morti. Nove.
Bilancio finale a Baghdad, dodici morti e venticinque feriti.
Dieci minuti, ed è tutto finito.
Aspettiamo la prossima.
Dalle trincee della prima guerra mondiale ai campi di concentramento della seconda, ogni guerra ha la sua icona. Il napalm del Vietnam. I machete del Ruanda, i mortai e i cecchini della Bosnia. I barili esplosivi della Siria. L’Iraq è una guerra di Ied, Improvised explosive devices. Una guerra di ordigni artigianali. A Baghdad, e da anni, esplode un’autobomba al giorno. Spesso più di una. E gli attentati sono ovunque. In queste ore colpiscono soprattutto gli sciiti, che stanno arrivando da tutto l’Iraq per commemorare Mousa al-Khadim, il loro settimo imam, ma la settimana scorsa, e presumibilmente, la prossima, torneranno a colpire caffè e negozi, quartieri ricchi e quartieri poveri. Per questo sono il simbolo dell’Iraq di oggi: non sono più furgoncini che si schiantano contro la Zona Verde, contro gli stranieri, l’obiettivo non è più scalzare via gli americani. Riappropriarsi del paese. Ora l’obiettivo, semplicemente, è destabilizzarlo.
Tenerlo in ostaggio.
Perché nelle guerre, ormai, siano la Siria, siano il Libano, la Cecenia, Gaza, non c’è più un fronte, si combatte, si bombarda ovunque. Non esiste più alcuna distinzione tra civili e combattenti. Ma in Iraq, non solo non c’è un fronte: in Iraq non c’è una direzione. Una definizione di vittoria e di sconfitta. Non c’è un campo contro o pro Assad, qui. Non ci sono filorussi e filoucraini, serbi e croati, monarchici e repubblicani – e né ci sono sunniti contro sciiti, a guardare più in profondità. Ci sono solo mille gruppi armati. Mille gruppi criminali.
Ci sono solo Ied. Sempre.
In teoria, la sicurezza è affidata all’esercito. Che un anno fa, però, davanti all’avanzata dell’Isis, si è sfaldato, 60mila soldati contro 2mila jihadisti, disseminando lungo la strada armi e carrarmati. Gli americani stanno tentando di riorganizzarlo, ma non è una questione militare: il problema è convincere i soldati a rischiare la vita per uno stato discreditato come quello iracheno. Uno stato così inefficiente, così marcio che l’equipaggiamento per le prime 5mila reclute non è mai arrivato a destinazione. A Camp Taji, venti miglia da qui, si addestrano urlando Bang Bang. E nel bilancio, la voce “sicurezza” è superiore a istruzione, sanità e ambiente insieme.
Gli americani hanno inserito una nuova materia: determinazione a combattere.
Fino a oggi, per l’esercito iracheno hanno speso 25 miliardi di dollari.
I padroni veri, qui, sono i miliziani sciiti. A Baghdad i gruppi principali sono due. Le Brigate Badr, guidate da Hadi al-Amiri, la cui specialità è l’omicidio con il trapano. E Asa’ib Ahl al-Haq, la cui specialità invece sono gli attentati alle ambasciate occidentali. E molti dei leader, tra l’altro, molti dei comandanti hanno ruoli di governo. Il presidente del comitato parlamentare per la difesa, per esempio, si chiama Hakim al-Zamli. Mi viene vagamente presentato come un esperto di riassetto territoriale. Un urbanista. O forse un sociologo. O come dice Google: uno dei protagonisti della campagna di espulsione dei sunniti da Baghdad.
In mancanza di truppe occidentali, sono questi i good guys chiamati a sradicare i bad guys dello Stato Islamico. Il 1 aprile due cronisti Reuters hanno filmato la liberazione di Tikrit: due poliziotti arrestano uno jihadista, e in mezzo alla folla in festa, gli tagliano la gola.
Dalla finestra, mentre scrivo, vedo in fiamme Adhamiya. E’ un quartiere sunnita. I miliziani sciiti hanno bloccato le strade di accesso, e cioè le vie di fuga, e hanno incendiato tutto.
E’ la risposta all’autobomba.
Per gli iracheni, i miliziani sono identici agli jihadisti. Gli sciiti identici ai sunniti. Ugualmente feroci. Senza regole né remore, ugualmente imprevedibili. Se l’Isis sembra il male supremo, in realtà, il male assoluto, è solo perché i pochi giornalisti che si avventurano fino in Iraq a raccontare i suoi nemici sono trattati come turisti. Nessuno è ammesso ai fronti veri, in cui realmente si combatte. A nessuno è concesso unirsi a una perquisizione. A una retata. A un’operazione di ripristino dell’ordine pubblico – dal momento che ufficialmente, è questo il loro ruolo: operazioni di polizia. E la ragione mi viene involontariamente spiegata da un generale che chiede all’interprete cosa intendo per perquisizione, cosa voglio vedere di preciso: e senza sapere che capisco l’arabo, gli dice: “se voglio qualcuno, me lo prendo”.
Perché è così Baghdad. A un certo punto si sparisce. A un certo punto si muore.
Si vive al chiuso. E lontano dalle finestre, dovessero i vetri, all’improvviso, esploderti addosso. Ci si sposta furtivi, a Baghdad, e solo in auto, rapidi, da un edificio all’altro. Possibilmente, da un piano alto all’altro: un’autobomba danneggia solo i più bassi. Ogni auto che sgomma fa paura, qui. Ogni auto che frena all’ultimo. Ogni auto che va veloce, ogni auto che va lenta. Che accosta. Che svolta. Ogni auto ti sembra parcheggiata in modo sospetto. Ogni cavo, ogni cumulo di spazzatura, di rottami, ogni mattone dissestato ti sembra nasconda uno Ied. E ti è subito chiaro da dove arriva il ritorno della religione: l’unica, qui, per resistere, è affidarti al Corano. O alla Bibbia, a un amuleto, uno sciamano – qualsiasi cosa: ma non alla ragione.
O il panico ti travolge.
Perché non c’è nessuna logica in questa guerra.
Che neppure è una guerra: perché nessuno combatte per vincere. Per governare l’Iraq. Non è che violenza e saccheggio. Solo regolamenti generalizzati di conti.
Solo Ied. Ovunque.
Un passo fuori dalla porta, e ti senti totalmente vulnerabile. E totalmente marcio, quando senti l’esplosione, infine, e quel solito, spietato senso istintivo di sollievo – ancora una volta, non è toccato a te. Questo senso di colpa, mentre tu respiri, finalmente: è andata, un’altra: mentre un padre urla. Questa consapevolezza che sei salvo, ma non immune.
Mentre la vita ricomincia subito come prima. Tranne che per i morti.
(questo testo è apparso su Internazionale il 16 maggio 2015)