«In piena facoltà egregio Presidente Le scrivo la presente, che spero leggerà…». Rubo i versi al Disertore di Boris Vian, egregio Presidente perché quello che le chiedo è dare vita a una forma di diserzione. Tra poco sarà il 2 giugno, festa della Repubblica, di quella Repubblica “fondata sul lavoro” e saranno trascorsi solo sei giorni dalla sentenza della Corte d’Assise d’appello del processo ThyssenKrupp, che ha visto ridurre le pene ai responsabili del disastro costato la vita a otto operai. Cosa c’entrano questi due fatti, mi dirà, c’entrano perché se a morire fossero stati sette militari, ci sarebbero stati gli onori e i funerali di Stato, i suoi predecessori si sono sempre recati ad accogliere le bare, avvolte nelle bandiere. Sono morti dei lavoratori invece, come ne muoiono ogni giorno nel nostro Paese, la cui Costituzione dice essere fondato sul lavoro, ma nessuno di questi merita il riconoscimento ufficiali che invece viene tributato ai militari. Nessun politico, soprattutto del Pd, si è presentato alle esequie né ha fatto sua la questione della sicurezza sul lavoro. Non disturbiamo i manovratori, non sia mai che insinuino che c’è una “manina anti impresa”.
Le dicevo, è il 2 giugno, il rituale più importante della Repubblica, che celebra se stessa e chi saranno a rappresentare pubblicamente la Repubblica sfilando di fronte al suo palco? I militari, solamente i militari. I rituali per entrare a far parte della percezione collettiva, necessitano di canoni regolari, devono essere codificati, presentare una certa ripetitività che ne affermi la permanenza e la costanza nel tempo. Per dirla con Claude Lévi-Strauss, il rituale ha sempre in sé «un aspetto maniacale e disperato» e proprio a causa di questa ripetitività che ne caratterizza le procedure, il rituale, nutre l’illusione che sia possibile ripercorrere a ritroso un mito, ristabilire il continuum, a partire dalle discontinuità. Un’illusione dunque, perché i rituali sarebbero comunque “freddi” se confrontati alle esperienze vissute, che sono, invece, calde. Un’illusione di cui però non si può fare a meno.
I rituali di rappresentazione sono uno degli elementi fondanti di qualsiasi società, delle piccole comunità di villaggio come dei moderni stati-nazione, in questo caso con i loro inni nazionali, le bandiere, le parate militari, che mettono in scena, visivamente, l’apparato governativo. Infatti, è questo lo scopo del rituale: “mettere in scena”, nel senso teatrale del termine, rappresentare la struttura ufficiale di una società. Come ci ha brillantemente spiegato Benedict Anderson, le comunità sono in gran parte immaginate, e la nazione più di altre, ma tutte hanno bisogno, in qualche momento, di essere reificate, per essere visualizzate e percepite nella loro esistenza reale.
Il rituale mette in scena un apparato simbolico che non agisce tramite somiglianze, ma sulla base di astrazioni, che vanno, appunto, intuite, più che ricercate razionalmente. Operando a un livello meno razionale e più inconscio, il simbolo acquisisce una forza che appare meno controllabile rispetto a quella delle altre forme di segno.
Simboli che, nei casi delle manifestazioni di Stato, esprimono il volto o i volti del potere e delle istituzioni connesse. Le istituzioni sono in fondo dei nuclei stabilizzati di rapporti sociali che alimentano (o almeno dovrebbero alimentare) il patrimonio sociale della fiducia reciproca. Le istituzioni “esonerano” gli individui dal pensare ogni volta alle reazioni causate dal fatto di agire in un contesto sociale. Ogni volta che optiamo per una scelta, dovremmo pensare alle conseguenze delle nostre azioni. Bene, le istituzioni ci “esonerano” da questo genere di calcoli, poiché in un certo senso, quei calcoli sono già stati fatti dalle istituzioni stesse, una volta per tutte e per tutti. È anche questo insieme di scelte che viene messo in scena nelle manifestazioni ufficiali.
Tornando alla cerimonia del 2 giugno: l’esercito sfila, mettendosi in mostra davanti a un palco dove le più alte cariche dello Stato sono disposte secondo un ordine ben preciso: al centro, posizione considerata preminente, il Presidente della Repubblica, massima autorità e Capo dello Stato; alla sua destra, altra collocazione che riflette un ordine gerarchico (la destra nel pensiero comune è considerata preminente sulla sinistra, vedi le storiche discriminazioni dei mancini), il Presidente del Senato, seconda carica istituzionale; alla sinistra la terza carica, il Presidente della Camera. Seguono, ai lati del Presidente del Senato, il Primo ministro, il capo delle Forze armate e così via. Una perfetta rappresentazione della gerarchia politico-militare che governa il paese. Politica, ma soprattutto militare. Infatti, fin dalle prime celebrazioni il 2 giugno assume un forte carattere militare.
Nel rituale collettivo più importante della Repubblica si mette in secondo piano un altro articolo della Costituzione, il numero 11, che afferma: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Il fatto di ripudiare la guerra non significa che si debba rinunciare ad avere un esercito. Persino la neutralissima Svizzera ne possiede uno, però un conto è prevedere un corpo di difesa, un altro è celebrarne la centralità repubblicana, come si può evincere dalla manifestazione del 2 giugno. Una centralità e una dichiarazione di superiorità rispetto alle altre categorie, che viene espressa anche da altri rituali non sempre istituzionalizzati, che riguardano le forze armate e le autorità repubblicane.
Per questo, Egregio Presidente, Le chiedo con tutto il cuore: diserti la formalità, faccia sfilare maestri di scuola, infermieri, operai, medici, ferrovieri, tutte quelle persone che con la loro vita senza mostrine fanno sì che questa Repubblica sia davvero fondata sul lavoro. Anche i parenti delle vittime della ThyssenKrupp magari, forse sentirebbero lo Stato meno lontano.