Cultura

‘Fumo Blu’ a teatro: la storia di un ‘sono un io più te e mai un noi’

Forse ogni critico teatrale avrebbe voluto fare l’attore, leggasi Renato Palazzi, o essere autore, vedi il trentenne Gherardo Vitali Rosati in questo debutto in pompa magna con squilli altisonanti di trombe e tappeti rossi. Una sorta moderna de “I dolori del giovane Werther” questo denso “Fumo blu” mantecato tra l’arte e le ambizioni, la carriera e la soddisfazione personale, le frustrazioni e la fantasia, la creatività e la praticità della vita. Una grossa produzione per tre settimane (8-24 maggio) di repliche (cosa molto difficile da vedere a Firenze e dintorni) e alle spalle mostri sacri, in varie vesti, come il Teatro Metastasio, il festival di Spoleto e addirittura La Mama di New York. Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino Vitali Rosati è destinato ad un terreno lastricato di applausi. Deve però scegliere quale sarà il suo percorso, prendere una via, una linea netta, decisa, senza osmosi tra i campi, non tanto per una semplice questione formale di conflitto d’interessi (che qui non c’è) quanto piuttosto per un mero fatto di opportunità e autorevolezza: scrivere di teatro o scrivere teatro?

“Fumo blu” (canzone di Mina; dal testo, inerente alla drammaturgia: “Lo so non sei un divo né un artista né l’eroe del west”), un mix tra sogno, forse il principe azzurro, e l’incubo, il mistero, la nebbia, due trentenni in lotta perenne tra il loro desiderio di sfondare, di esserci, di ricevere consenso sociale attraverso il loro lavoro, che è anche la loro più intima e primitiva passione (la cronaca e il tutù), e lo stare insieme, il costruire qualcosa che vada al di là di se stessi, del loro stare al mondo in maniera individuale. Sono un io più te e mai un noi. Un giornalista (Daniele Bonaiuti carico d’impegno), tra stille di autobiografia e gocce autoreferenziali sparse, e una danzatrice (Silvia Frasson spesso piega sul versante comico anche quando non ce ne sarebbe bisogno), con la seconda, le donne sono sempre più pacate e adulte, che è pronta (il famigerato tic tac biologico) a mettere su l’armamentario di pannolini e pappe. Il testo, scorrevole, convincente, è visibilmente sbilanciato sulla figura del redattore (addirittura si accenna all’essere prole di Oriana Fallaci: un po’ esagerato) mentre il ruolo femminile gira attorno come satellite, entra ed esce dal discorso, si affaccia e ritira la testa come tartaruga. Ma il perno è e rimane questo maschio ancora adolescente che, anche se con modi gentili, resta incantato dai videogiochi, incapace di relazionarsi al di là dell’incontro fisico, molto concentrato sul proprio percorso, caterpillar che tutto travolge.

L’impianto (la regia di Andrea Paciotto è stabile) è molto ben architettato e congegnato con una scena semplice ed efficace organizzata da Lorenzo Banci che prevede migliaia di copie di giornali sparsi o in mazzette che si fanno arredamento e sedie, scrivania e letto, una violoncellista (sorprende Lisa Lim; la mente vola alla pellicola “Tutte le mattine del mondo”) che suona dal vivo e un gioco di specchi (stavolta Stefano Massini non c’entra niente) dove luci verdi e viola creano, a rincorrersi, rivoli e strascichi interessanti con un finale che lascia lievemente interdetti.

I due ragazzi, ormai quasi maturi in questo mondo che innalza continuamente l’asticella dell’età dello spalancarsi del mondo adulto, stazionano inadeguati, vivono irrisolti, giacciono svogliati su parole vecchie stampate e logore, parole che macchiano indelebili con il loro senso di passato e già visto, le parole antiche dei padri, con i loro consigli e le loro ricette, che non corrispondono più a questo presente che corre e che fa vacillare come le pile dei giornali che traballano come Torri di Babele. Il giornalista è un Icaro fatto di carta e per questo fragile e frangibile, sensibile anche ai piccoli copi di vento, è un albatro con le ali troppo grandi per camminare a terra in questo precariato diffuso che macina e macera lavoro e amore, facendo confluire in un grande zibaldone vita privata e pubblica, inglobando tutto, senza più spazi di manovra per uscirne, per tagliare la corda, per rimettersi in gioco, ogni giorno sempre più dentro il tunnel del divertimento. “La mia generazione ha perso”, sollecitava il realismo gaberiano. Forse tutte le generazioni perdono se hanno il mito irraggiungibile della precedente e non riescono ad immaginare che un altro mondo sia possibile oltre quei limiti imposti.

Visto al Teatro Magnolfi, Prato, il 12 maggio 2015.