Un lavoro che risente del percorso di confronto e scambio con la scrittrice e giornalista Paola Caridi, autrice del libro Gerusalemme senza Dio, che ha vissuto nella Città Santa per oltre dieci anni: "Io sono palestinese - ha detto Nabil Salameh a FQ Magazine - già questo fatto mi pone con una certa sensibilità rispetto a una tematica che ha al centro la città"
Ascoltando Cafè Jerusalem, l’undicesimo album dei Radiodervish, ci si trova improvvisamente catapultati nella Gerusalemme degli anni Quaranta, seduti in un caffè a godere di storie e leggende cantate dagli Hakawati, sospesi fra tradizione e modernità. Il gruppo pugliese, guidato da Nabil Salameh alla voce, Michele Lobaccaro alla chitarra e Alessandro Pipino al piano, ha ricreato le atmosfere di quell’epoca, evocando i suoni, le immagini e le inquietudini di un mondo che proprio in quel decennio ha vissuto importanti e tortuose trasformazioni. Un lavoro che risente del percorso di confronto e scambio con la scrittrice e giornalista Paola Caridi, autrice del libro Gerusalemme senza Dio, che ha vissuto nella Città Santa per oltre dieci anni. Con lei i Radiodervish hanno realizzato anche lo spettacolo teatrale Cafè Jerusalem, portato in scena pochi mesi fa e tappa di un percorso che ha portato alla nascita del nuovo lavoro del gruppo. I nove brani dell’album raccontano la natura multiculturale della città, facendo leva sulla ricerca sonora e linguistica, ormai cifra stilistica del gruppo. Ma soprattutto narrano una storia di libertà e di speranza: un amore all’apparenza impossibile fra una donna palestinese e un ragazzo ebreo.
Nabil, qual è il percorso che vi ha portato al disco Cafè Gerusalem?
È iniziato tutto molto tempo fa. Il percorso è stato influenzato sia dalla nostra storia che dal cammino umano e artistico che abbiamo fatto io e Michele Lobaccaro in questi ultimi anni. Io sono palestinese, già questo fatto mi pone con una certa sensibilità rispetto a una tematica che ha al centro Gerusalemme. La città è stata sempre nel nostro immaginario, ma ha fatto parte anche del nostro vissuto. Un precedente disco dei Radiodervish, infatti, l’abbiamo composto proprio lì, ci siamo trasferiti per vivere da vicino questa città speciale. E proprio in quel periodo c’è stato anche l’incontro molto bello con Paola Caridi.
Quanto questo confronto ha influenzato la stesura del disco?
C’è stata un’influenza reciproca. Dal nostro incontro e dalle esperienze dei singoli, ognuno ha sviluppato riflessioni nel proprio campo, spunti creativi anche a livello musicale. In quei giorni è nato il libro di Paola Caridi, Gerusalemme senza Dio. Da lì si è passati allo spettacolo teatrale e a una scrittura drammaturgica che narra un’ipotetica storia d’amore tra la palestinese Nura e un ebreo appena arrivato in città. Un amore che viene vissuto al margine, con lo sfondo del caffè di proprietà di questo personaggio. È ambientata tra il 1946 e il 1948, gli anni che hanno segnato lo sconvolgimento della società palestinese a Gerusalemme. Il nostro lavoro musicale si intreccia con questa storia d’amore parecchio turbolenta.
Secondo te, nella Gerusalemme di oggi sarebbe possibile un amore fra una palestinese e un ragazzo ebreo?
In realtà tutto è possibile. La possibilità è il nostro habitat ideale. Sicuramente la situazione in Palestina attraversa uno dei momenti più bui della storia, avendo di fronte oggi un’amministrazione israeliana che non è mai stata così chiusa a instaurare o a riprendere il dialogo. È possibile perché l’amore non conosce logica.
Anche in questo lavoro c’è una grande varietà linguistica nei testi.
In realtà ormai è la nostra cifra stilistica, un po’ perché ci piace giocare su questo aspetto, un po’ perché le mie provenienze mi hanno impregnato di questo multilinguismo. Io sono nato e vissuto in Libano, dove il francese è la seconda lingua ufficiale e lo parlo come se fosse l’arabo. L’inglese l’ho imparato a scuola e l’italiano è la lingua della mia nuova patria. Mi vien fuori naturale utilizzarle tutte quante, seguendo le emozioni in base a ciò che mi suggerisce il “colore” musicale e l’immaginario.
Voi vi siete ispirati ai racconti degli Hakawati. Chi sono?
In Italia si chiamano cantastorie. Una volta in Oriente questa era una figura centrale, quando non c’era la televisione, loro animavano i caffè ma anche le piazze dei paesi con i teatrini. Questa figura raccontava uno spaccato sociale del gli anni Quaranta al posto della tv e del cinema. Quindi ci siamo immaginati l’Hakawati in questo caffè, custode di sapere popolare e antico.
Oltre alla campagna di crowdfunding, la produzione del disco è stata in parte sostenuta dal Puglia Sounds Record 2015. Di cosa si tratta?
È un ente regionale che si occupa della promozione della musica all’interno del territorio pugliese. Siamo fortunati ad avere un ente così che da anni lavora per portare la musica territoriale a livello internazionale. Si concorre a un bando e, se si hanno i requisiti, Puglia Sounds copre parte della produzione dell’opera musicale. Già diverse realtà pugliesi hanno usufruito di questo sostegno. È una iniziativa molto bella, soprattutto perché, considerata la crisi del settore, oggi più che mai la musica ha bisogno di aiuto. Speriamo possa essere replicata in altre regioni.