Questa settimana ospito l’intervento di Alessandra Terenzi*
Beirut, la “Parigi del Medio Oriente”, oggi sembra la versione mediterranea di una città cosmopolita come Londra o New York: in continuo fermento, aperta alle influenze globali, immemore del passato e tutta rivolta al futuro. Il suo skyline è uno dei più moderni della regione, paragonabile alla geograficamente vicina e mentalmente lontana Tel Aviv, appena 260km più a sud. Eppure oggi Beirut è la capitale di uno Stato che, ormai da un anno, si ritrova senza Presidente: era il 25 maggio 2014 quando terminò, infatti, il mandato del Presidente uscente e da allora le forze politiche libanesi non sono capaci di raggiungere un per la nomina del capo dello Stato.
Nonostante la Presidenza in Libano rivesta essenzialmente un potere di garanzia, il rinvio della sua nomina è il segno di una crisi profonda del sistema confessionale su cui si regge il Paese, amplificata dal elementi esterni.
Nei due decenni successivi alla fine della guerra civile (1975-1990), Beirut ha attraversato enormi cambiamenti, chiaramente leggibili nella sua struttura urbanistica attuale: ha assunto un volto nuovo e moderno, radendo al suolo molti degli edifici originali andati parzialmente distrutti nella guerra e poi abbattuti dalle speculazioni della holding del defunto premier Rafiq Hariri, Solidaire. Tuttavia, il peso della guerra civile continua a influenzare fortemente lo sviluppo della città e il suo assetto urbanistico rimane ancora in buona parte impostato sulla segregazione tra gruppi su base religiosa.
Il principale ostacolo a una rivisitazione di Beirut in chiave contemporanea è dato dal perdurare della divisione della città in due metà: la parte est e quella ovest: associate a una Beirut “musulmana” nella parte occidentale ed una “cristiana” in quella orientale. I movimenti tra i due lati sono ancora ridotti, come se la segregazione permanesse soprattutto nella memoria e nelle abitudini quotidiane e mentali delle persone, al di là dei limiti e delle barriere fisiche presenti nello spazio. A sua volta, ogni metà della città contiene altre sottodivisioni, che rendono lo spazio poco uniforme e intellegibile ad un visitatore esterno: divisioni che corrono lungo linee confessionali e non geografiche, che a loro volta si sommano a differenze socio-economiche. Ad esempio, la parte occidentale è prevalentemente abitata da sunniti, ma al suo interno il quartiere di Hamra presenta una mescolanza di sunniti e drusi di classe altoborghese; nella periferia meridionale, invece, si concentra la maggioranza degli sciiti di classe umile e a sud-est dei drusi. Quasi a significare che oltre le linee confessionali così presenti nel dibattito politico, altre divisioni sotterranee, altrettanto significative, concorrono nel creare la profonda stratificazione sociale che contraddistingue la città.
Al consolidamento di una generale divisione urbana per parti, si aggiunge la trasformazione del centro urbano, iniziata da Hariri padre e proseguita da Hariri figlio (Saad): un cantiere a cielo aperto che, cresciuto dalle ceneri della guerra, ha distrutto le preesistenze architettoniche ed urbanistiche, caratteri identitari del luogo, per identificarsi nel moderno simbolo della rinascita nazionale: una nuova Dubai, modellata sull’onda della globalizzazione e solo retoricamente legata all’identità mediterranea dell’antica città-porto levantina. Questa nuova, lussuosa realtà urbana -costruita quasi esclusivamente per i ricchi turisti del Golfo-, giace oggi in uno sconfortante abbandono, causato dalla caduta del governo filo-saudita di Hariri nel gennaio 2011.
Parallelamente, già a partire dalla guerra contro Israele del 2006 -dove Hezbollah si era caratterizzato come la principale forza di resistenza anti-israeliana della regione-, la parte a sud-ovest di Beirut, chiamata “Dahiyeh“, ha subito una consistente espansione, trasformandosi da piccolo ghetto urbano in una vera e propria “città nella città”, costruita sul principio di una gated-community all’inverso: un’enclave povera, ma serrata nei propri ranghi, depositaria di una cultura diversa e autonoma, interamente sigillata dall’interno. La più evidente manifestazione urbana del potere alternativo che Hezbollah ha costruito nel corso degli anni si esplicita, poi, nel controllo della principale porta di accesso al Paese: l’aeroporto di Beirut, posto appena a sud di Dahiyeh, e collegato alla città da una strada che lo attraversa e su cui il “Partito di dio” esercita un controllo totale.
Ad ovest della roccaforte sciita militante, si trovano, poi, i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, luogo della carneficina falangista del 1982, dove decine di migliaia di rifugiati palestinesi del ’48 si ammassano ancora oggi assieme a siriani, libanesi e iracheni rifugiati delle crisi più recenti, condividendo ormai le stesse tragiche condizioni di vita, tra cui il sovraffollamento derivante dall’essere stipati in un fazzoletto di terra appena più largo di un chilometro quadrato. Ai rifugiati palestinesi, da sempre apolidi, si aggiunge oggi infatti la presenza di oltre un milione di profughi fuggiti dalla Siria, molti dei quali dispersi in varie aree della capitale in cerca di lavoro e sopravvivenza, tra cui siriani di origine palestinese, doppiamente profughi, nonché cristiani assiri in fuga dall’Isis, invitati dal Ministro degli Interni libanese Machnouk a rifugiarsi in Libano.
Una pressione demografica, sociale ed economica difficile da reggere per un Paese che si trova già in una condizione di precario equilibrio interconfessionale e quindi anche inter-istituzionale. Non a caso la mancata elezione del Presidente è la causa diretta di due fattori: il profondo disaccordo tra cristiani -di cui una parte alleata ai partiti sciiti e l’altra ai sunniti-, spaccati sulla scelta del Capo dello Stato, e lo scontro per l’egemonia sulla regione in corso tra Arabia Saudita e Iran, che contribuiscono alla polarizzazione interna (tra filo-sciiti e filo-sunniti) dei due schieramenti.
In realtà, è impossibile parlare di Libano senza pensare alla Siria e senza comprendere che il Paese dei cedri non potrà essere stabile finché la comunità internazionale, e non i due schieramenti coinvolti nel conflitto, non troverà una soluzione per la guerra civile che l’affligge da oltre quattro anni. Il Paese sta facendo uno sforzo immenso per preservarsi dall’impatto della crisi, ma, come spiegò bene lo scrittore Samir Kassir (ucciso lo scorso 2 giugno 2005) nel suo pamphlet “Primavere per una Siria democratica e un Libano indipendente”: “la democrazia in Siria e l’indipendenza del Libano vanno di pari passo”. La crisi siriana, infatti, è inserita in una dinamica regionale dove quello che succede nei Paese limitrofi si ripercuote automaticamente sui Paesi vicini: in particolare sul Libano, dove il coinvolgimento diretto in funzione pro-siriana di Hezbollah (e, quindi, la sua accresciuta militarizzazione) e la presenza di migliaia di nuovi rifugiati rischiano di scardinare lo status quovigente.
La crisi sulla nomina del Presidente in Libano rivela, quindi, un dissidio più profondo: quello sulla tenuta interna del Paese e sulla sua sopravvivenza come Stato multiconfessionale. Come emerge con evidenza a livello urbanistico dagli attuali processi di trasformazione di Beirut, le dinamiche etniche e confessionali rappresentano ancora oggi l’elemento distintivo caratterizzante lo sviluppo della città: non è possibile, quindi, fermarsi all’immagine glamour che Beirut vuole proporre di sé stessa. Per quanto la città si presenti come una città cosmopolita d’avanguardia, come hub finanziario, come “city” economica ricostruita dalle ceneri delle guerre -con costruzioni moderne di pregio, progetti di ristrutturazione avveniristici, continui cantieri aperti ed alberghi extralusso-, Beirut rimane la capitale di uno Stato del Medio Oriente afflitto dai conflitti interni e geopolitici che ne minacciano la sopravvivenza in quanto comunità politica e sociale, ancora prima che urbana.
*Da oggi il blog si occuperà anche delle città del Mediterraneo. Dal 2007, più del 50% della popolazione mondiale vive nelle città e questa percentuale è prevista in rapido aumento nei prossimi anni, soprattutto nella regione mediterranea. Trattare il tema delle città è, dunque, di grande importanza: l’articolo di oggi si propone di aprire uno spazio all’interno di questo blog appositamente dedicato a questa tematica. A questo scopo, ospito questa settimana l’intervento di Alessandra Terenzi, dottore di ricerca in Architettura, professore a contratto di Progettazione Urbanistica presso il biennio di laurea specialistica del Politecnico di Milano e ricercatrice Unimed. Svolge attività di ricerca nell’ambito della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo.