Stefano Fassina, uno tra i leader più in vista della minoranza interna, è il primo a caricare a testa bassa: «Il messaggio è chiaro, il popolo del Partito democratico non si riconosce nella svolta liberista e plebiscitaria» di Matteo Renzi. Il primo, ma non il solo. «Abbiamo giocato senza avversari tirando più di un rigore a porta vuota e mancando clamorosamente il bersaglio», rincara con una metafora calcistica contro la linea del presidente del Consiglio il bersaniano Alfredo D’Attorre. Ci va giù dura anche Laura Puppato. In Veneto, dove il Pd è uscito con le ossa rotta dal confronto con la Lega Nord, per la senatrice c’è «una classe dirigente che andrebbe mandata a casa».
FRATELLI COLTELLI E’ guerra nel Pd. Il giorno dopo le elezioni regionali che hanno visto il partito vincere in cinque Regioni su sette, nei corridoi di Largo del Nazareno si respira un’aria decisamente pesante. Frutto delle due sconfitte, quella in Liguria, dove Renzi e i suoi non si aspettavano di perdere contro Giovanni Toti, candidato di una Forza Italia ridotta ai minimi termini, e in Veneto, con Alessandra Moretti doppiata da Luca Zaia. Ma anche dello scenario senza precedenti che si è aperto in Campania, dove, oltre ad aver ufficialmente disconosciuto il suo marchio di fabbrica, la Rottamazione, il premier-segretario si ritrova con un Vincenzo De Luca che ha battuto il presidente uscente Stefano Caldoro ma ora rischia di non poter governare per effetto della legge Severino. Ecco perché, visti anche gli importanti risultati raggiunti dal Movimento 5 Stelle e dal Carroccio, c’è chi, come il bersaniano Miguel Gotor, punta il dito contro l’operato del presidente del Consiglio. Scatenando ovviamente una reazione dura. «Qui serve un’analisi della non sconfitta, chi parla di una vittoria è affetto quantomeno da miopia: non solo Renzi non è riuscito ad arginare le cosiddette forze “antisistema” ma, al contrario, ha fatto da concimatore consentendo loro di germogliare meglio», dice Gotor a ilfattoquotidiano.it. Una posizione, quella del senatore dem, cui fa eco la domanda posta da un altro esponente di fede bersaniana, Davide Zoggia: «Cosa accadrebbe domani se si andasse a votare con l’Italicum così com’è stato approvato?». Riflessioni che aprono scenari incerti soprattutto in vista della ripresa della discussione sulle riforme avviate dal presidente del Consiglio. In primis scuola e Senato.
VOTI A PERDERE Fra riflessioni e accuse di «sabotaggio» da parte di una «sinistra irresponsabile» (alias Giuseppe Civati), dal quartier generale renziano Ernesto Carbone respinge però l’idea di qualsiasi ipotesi di rimescolamento delle carte. «Onestamente non capisco cosa debba cambiare adesso, casomai dobbiamo accelerare sulle riforme in agenda – afferma il responsabile Pubblica amministrazione della segreteria del Pd – Ricordiamo che nel 2010 il Partito democratico governava in sei Regioni mentre altre sei erano sotto il controllo del centrodestra. Ne abbiamo riconquistate quattro. Possiamo dire qualsiasi cosa ma i numeri sono incontestabili». Ma non è solo una questione di cifre. «C’è un “no” al Pd di Renzi e senza radicali correzioni ai provvedimenti in discussione la situazione non migliorerà: il messaggio arrivato delle urne è molto chiaro», dice infatti Fassina. Il test decisivo resta la riforma della scuola, già approvata a Montecitorio e ora all’esame di Palazzo Madama: «È da lì che devono arrivare le risposte, non nelle dichiarazioni post elezioni». Altrimenti, ha già fatto sapere l’ex viceministro dell’Economia, «lascerò il Pd». E non è il solo a suonare l’allarme. «In questa tornata elettorale il Partito democratico ha avuto condizioni favorevoli che non ci sono mai state in passato e non ci saranno mai più in futuro», aggiunge D’Attorre: «In tutte e 7 le Regioni, rispetto al 2010, perdiamo voti in termini assoluti, un fatto che, sulle materie fondamentali come scuola ed economia, dovrebbe spingerci ad interpellare iscritti ed elettori. Su questi temi non sono accettabili dei semplici diktat».
TUTTI CONTRO TUTTI Ma al Nazareno le porte del dialogo sono tutt’altro che aperte. «Abbiamo già depositato emendamenti che migliorano il provvedimento, quindi, per quanto riguarda la riforma della scuola, non c’è alcun cambiamento radicale da fare», ribatte Francesca Puglisi, responsabile Scuola, università e ricerca della segreteria dem. Secondo la quale «la sconfitta in Liguria è stata solo colpa di una parte di sinistra dura e pura che ha deciso di tirare la volata alla destra». Stessa musica da Giuditta Pini, ex bersaniana di ferro ora passata nelle fila renziane. Anche se ammette che «serve una discussione per rinvigorire il partito sui territori», la deputata dem non sembra abbassare le armi di fronte alle accuse della minoranza: «Avevamo dei problemi nelle elezioni locali già nel 2014, quando alle Comunali siamo andati male rispetto alle Europee». Da qui l’invito a stringere le maglie del partito nel confronto con i “ribelli”: «Bisogna decidere come stare insieme, mi riferisco a chi sta nel Pd e annuncia di votare per il candidato di un altro schieramento». Nemmeno troppo velato il riferimento a Fassina, che alla vigilia delle elezioni ha affermato che, se fosse stato chiamato a votare in Liguria, avrebbe scelto Luca Pastorino, il candidato di Giuseppe Civati, e non Raffaella Paita.
BOCCA A BOCCA Ma non è tutto, ci sono anche altri fronti polemici sul tappeto. Perché, aggiunge Miguel Gotor, grazie al patto del Nazareno il premier-segretario «ha fatto la respirazione bocca-a-bocca a Berlusconi» e «il tentativo di rianimarlo è riuscito: la destra c’è. In più, abbiamo un altro dato da considerare, e cioè che il primo partito italiano è ormai Astenemos: il fatto che circa la metà degli aventi diritto non siano andati a votare non è solo disaffezione per la politica, ma insoddisfazione rispetto all’offerta che il Pd ha presentato in quelle Regioni storicamente sue roccaforti, come la Liguria. Comunque, il campanello d’allarme era già suonato in Emilia-Romagna, ma si è preferito fare gli struzzi e non sentirlo». Quanto alla Campania e alla “vittoria mutilata” di De Luca, «all’origine di tutto – conclude il senatore del Pd – c’è il codice etico del Pd che è stato bypassato: un gravissimo peccato di mancata vigilanza. Era Renzi che, in veste di segretario, avrebbe dovuto far rispettare le regole. Ora per noi si apre una situazione imbarazzante in una Regione nella quale il tema della legalità è centrale».
CLASSE ZERO Pure in Veneto però si è creato un corto circuito senza precedenti. «Oggi siamo qui a commentare una sconfitta che, seppur attesa, non credevamo si trasformasse in débâcle», spiega Laura Puppato che, nel novembre scorso, alle primarie per scegliere l’aspirante governatore dem da contrapporre a Luca Zaia, appoggiò la candidatura di Simonetta Rubinato. Primarie, quelle, che fecero registrare una scarsa partecipazione: appena 40 mila votanti contro i 170 mila che dodici mesi prima si erano ritrovati per scegliere il nuovo segretario nazionale. Ma che consegnarono comunque la vittoria all’europarlamentare vicentina Alessandra Moretti. Per la Puppato, però, la sconfitta affonda le radici nel pessimo atteggiamento tenuto dalla costola locale del partito. «Dopo che la Moretti ha vinto le primarie – spiega – molti di quelli che l’avevano appoggiata, guardando i sondaggi e le proiezioni di voto, hanno cominciato a fare un passo indietro. Una singolare forma di schizofrenia che, alla fine, ci è costata molto cara e che la dice lunga sulla qualità della classe dirigente del nuovo partito renziano».
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