Quest’anno, la NBA ha “deciso” di cambiare palcoscenico ed attori (protagonisti e non) per la sua rappresentazione conclusiva, le Finals, che iniziano il 4 giugno. Quindi fuori Lakers, Heat, Celtics, Spurs e dentro, per la prima volta in finale l’una contro l’altra nella storia della lega, Golden State e Cleveland, due squadre che solo dodici mesi fa, nessuno avrebbe davvero mai potuto pensare che potessero arrivare fino in fondo.
Una finale con protagonisti i Warriors con un solo titolo vinto in bacheca, ma quarant’anni fa, e i Cavs, ancora al palo, nonostante “l’aiutino” del primo LeBron James che nel 2007 portò la squadra sulla soglia del nirvana, senza essere neppure quotata dai bookmakers di Las Vegas, che di solito conoscono molto bene la materia. Due finaliste che rappresentano, rispetto a Lakers, Boston e Miami, un’altra America, quella operaia, quella lontana dall’alta finanza, dai tappeti rossi e dal glamour, un’ America che produce e lavora, quella delle casette in fila e delle fabbriche con le recinzioni in alluminio. Quindi un’America come quella della periferia di San Francisco, al di la del Bay Bridge, quella di Oakland, dove giocano i Warriors, una città che di bello da mostrare al mondo ha veramente poco. O come quella della Cleveland dei colletti blu scuro degli operai, dal centro cupo e marrone che cerca di far capire che la città, considerata una delle più brutte del continente, tanto da meritarsi il nomignolo di “mistake on the lake” (l’errore sul lago), non e’ poi cosi’ male, anche se sportivamente parlando non ha mai vinto nulla, in nessuna disciplina.
Per il basket giocato, invece, Cavs-Warriors rappresenta soprattutto la finale dei singoli, di quei giocatori che, con il loro modo di interpretare questa disciplina sportiva, hanno fatto davvero la differenza. Da una parte, l’immenso LeBron James, tornato a Cleveland dopo la sua fuga del 2010 verso il sole della Florida che lo aveva fatto diventare l’uomo più odiato dello’Ohio, dall’altra due ragazzini figli d’arte, con una coscienza cestistica modificata, come Stephen Curry e Klay Thompson, diventati sin dalle prime giornate di torneo la principale attrazione dell’intera NBA.
Per i Cavs, dopo quattro anni (e due titoli vinti) a Miami, James ci ha ripensato, tornando a casa (lui che è nato a Akron, cittadina a pochi chilometri da Clevelend) per cercare di portare finalmente un titolo alla sua città, considerando anche e soprattutto che genere di playoff è riuscito a disputare, riuscendo a mantenere tutte le promesse fatte il giorno del suo ritorno. E dire che, nonostante l’amore dei tifosi nei suoi confronti fosse risbocciato, le cose all’inizio del campionato per i Cavs non erano andate nel migliore dei modi, con LeBron che non si era affatto trovato con i metodi di David Blatt, il nuovo allenatore proveniente dall’Europa (dove ha vinto tutto) e con una squadra troppo poco profonda per poter arrivare fino in fondo, nonostante il suo immenso talento.
Poi, con l’acqua alla gola ed il rischio di non arrivare nemmeno ai playoff, tutto in gennaio è cambiato: un confronto aperto tra allenatore e giocatori, unito a un paio di avvedute manovre sul mercato (l’arrivo del centro russo Mozgov da Denver e quello di Smith e Shumpert da New York) hanno consegnato al “re” i compagni perfetti per poter arrivare fino all’atto finale. Con il giusto gruppo a sorreggerlo e con una diversa comprensione con Blatt, il miglior giocatore del mondo è, se possibile…migliorato ancora. La dimostrazione e’ arrivata in finale di Conference contro gli Atlanta Hawks, con Kyre Irving, l’altra stella della squadra, fermo ai box per un infortunio, e con LeBron che ha deciso di tornare a fare anche il playmaker, chiudendo praticamente da solo i conti con gli Hawks.
Per chi ama veramente il basket, vederlo giocare in quattro posizioni in attacco e a tratti addirittura anche cinque in difesa, è una sensazione unica di godimento estremo. Michael Jordan, per capirci, quando era più piccolo di James, faceva cose immense ma non poteva dividersi in questo modo: dieci centimetri e venti chili in meno glielo impedivano. Se per i giocatori di Cleveland, dopo il grip iniziale, seguire un James in un simile stato di forma e maturità e’ stata poi una cosa quasi automatica, per quelli di Golden State le proprie alchimie tra compagni sono invece venute bene sin dall’inizio. La squadra dei Warriors ha finito la stagione regolare come, di gran lunga, la migliore franchigia della lega, non solo in classifica ma praticamente in ogni categoria statistica. Soprattutto però, come dicevamo per Curry e Thompson, ha finito col portare veramente qualcosa di nuovo in campo. I due giocatori denominati sin da subito “the splash brothers”, dove splash sta per il rumore della palla che si infila nella retina, sono diventati una coppia dei record per la storia della lega. Mai due guardie, infatti, avevano segnato così tanti punti insieme con simili percentuali, sia da due che da tre punti.
Curry, eletto miglior giocatore dell’anno, ha fatto vedere cose davvero impensabili al tiro che, onestamente, è quasi impossibile descrivere a parole, tante sono state le varianti del suo gioco offensivo. Per farvi capire meglio, diciamo che Curry ha chiuso la stagione con 23 punti di media, ma soprattutto con il 44,3% nel tiro da tre punti, percentuale pazzesca considerando anche il numero dei tentativi presi. Se poi ci aggiungiamo anche che Stephen, in realtà gioca come play e passa la palla divinamente, direi che la sua fotografia è ben delineata. Descrivere l’altro splash, Klay Thompson, anche lui tiratore incredibile, è altrettanto difficile: diciamo che, tra le altre cose, quest’anno è riuscito a segnare qualcosa come 37 punti in un quarto (12 minuti) con 13 su 13 dal campo di una partita di stagione regolare.
Tutto questo essendo anche uno dei migliori difensori in assoluto del campionato, cosa generalmente quasi impossibile per uno che ha doti offensive di questo tipo. Con due così in campo e con un gruppo che li circonda di altissimo livello, (i Warriors hanno una rotazione di 10 giocatori) per l’allenatore (anche lui al primo anno in panchina e, manco a dirlo, gran tiratore quando giocava a fianco di Michael Jordan) è venuta fuori una stagione da incorniciare seguita da dei playoff nei quali, due battute a vuoto, sono state presto cancellate da successive grandi prestazioni. Volendo azzardare un pronostico, leggermente influenzato anche dallo stato fisico delle due squadre (i Warriors stanno meglio) al meglio delle sette partite, Golden State potrebbe spuntarla 4-2.
Il basket è sicuramente lo sport più difficile da pronosticare, ma pensare che i Warriors non riescano più a mettere in campo la loro pallacanestro, fatta di tanta corsa e tutti (pivot compresi) che tirano divinamente, proprio all’ultimo atto, pare difficile da credere. E contro un simil basket, il super LeBron degli ultimi mesi, potrebbe davvero non essere sufficiente.