Cultura

Antonia Arslan, “cantastorie” degli armeni: “Canto le terribili memorie di mio nonno”

Ha ricevuto il “Premio Ostana: scritture in lingua madre”, e la cittadinanza del comune occitano dove si tiene la manifestazione, ai piedi del Monviso. Il suo ultimo romanzo, Il rumore delle perle di legno, è ambientato a Padova negli anni del fascismo e del dopoguerra, e ruota sempre intorno all'abisso oscuro del destino armeno

di Antonio Armano

La “cantastorie” del popolo armeno che risponde al nome di Antonia Arslan è autrice di diversi testi, narrativi e saggistici, sul Medz Yeghern, Il Grande Crimine – così gli armeni chiamano i massacri perpetrati dai turchi nel 1915 -, per i quali riceve il “Premio Ostana: scritture in lingua madre”, e la cittadinanza del comune occitano dove si tiene la manifestazione, ai piedi del Monviso. Ma qui a Ostana, sulla figura di questa donna minuta e dolce ma molto tenace e determinata, incombe piuttosto la sagoma dell’Ararat…

In che modo la letteratura contribuisce a diffondere la conoscenza di un crimine come il genocidio?
“Si tratta di una questione molto importante. Se riesci a raccontare una storia attraverso il carattere dei personaggi, li rendi vivi e universali. Il pubblico si può immedesimare in loro. Partecipa alle sofferenze e alle gioie. Li sente vicini. È quanto è accaduto con La masseria delle allodole. Continuo a ricevere messaggi di lettori che hanno amato, per esempio, il personaggio del farmacista Sempad… Si genera una empatia affettiva. Ci si sente parte della famiglia che è al centro della vicenda. Perché questo avvenga occorre che una storia abbia diversi protagonisti forti in cui ci si può identificare – bambini, vecchi, giovani… -, e una struttura narrativa che tenga, basata su vicende reali”.

Nel suo ultimo romanzo, Il rumore delle perle di legno (sempre Rizzoli), che è ambientato a Padova negli anni del fascismo e del dopoguerra, e ruota sempre intorno all’abisso oscuro del destino armeno, anche se in modo più intimo e personale, lei assume su di sé il ruolo di “cantastorie”… Come si pongono gli armeni con i quali entra in contatto rispetto alla memoria dei tragici fatti del 1915?
“Ci sono atteggiamenti molto variegati. Riscontro attitudini diverse nelle persone con le quali entro in contatto… C’è chi vuole raccontare. C’è chi magari ripete all’infinito ma gli altri non vogliono ascoltare. E c’è chi, al contrario, si è condannato al silenzio: per andare avanti, per non tornare su un vissuto di sangue che non è piacevole rievocare e rappresenta un trauma indelebile. Nella mia famiglia è stato mio nonno – il patriarcale e autorevole Yerwant del Rumore delle perle di legno -, a tramandare la memoria di quanto è accaduto. Oggi siamo arrivati alla terza generazione dei discendenti dei sopravvissuti”.

Suo nonno Yerwant parlava spesso dell’eccidio avvenuto in Anatolia ai danni degli uomini armeni: della deportazione delle loro donne nel deserto siriano della fame e delle fosse comuni, insomma del Medz Yeghern?
“No. Non ne parlava con nessuno. Per qualche motivo che ignoro, ha deciso di parlarne con me. Mi ha scelta come depositaria di meravigliose e terribili memorie ambientate nella lontana terra degli avi. E non ho potuto sottrarmi al ruolo di cui mi ha investita quando ero una bambina, sotto un pergolato di glicine, dopo avermi guarito con le iniezioni di penicillina, nel ’48-49… Era chirurgo, come mio padre”.

Lei ha tradotto dall’armeno Il canto del pane, il libro di poesie di Daniel Varujan, edito in Italia da Guerini, e avventurosamente recuperato grazie all’agente segreto Arshavir Esayan, dopo l’assassinio del giovane autore, avvenuto in Turchia cento anni fa, il 26 agosto del 1915: a colpi di pugnale. Perché non ha scritto La masseria delle allodole in armeno?
“Io sono nata a Padova. E anche mio padre era nato a Padova. L’italiano è la mia lingua madre. Dunque non posso che scrivere in italiano, è naturale per me. Inoltre: la mia conoscenza dell’armeno non è tale da consentirmi di scrivere un romanzo. Non lo conosco abbastanza bene. Casomai avrei potuto scrivere in francese, la mia seconda lingua, che ho imparato alla Berlitz School di Padova dalla signorina Arpiarian, che era anche lei di origine armena ed è morta sola in un albergo… Sapere il francese era considerato molto importante nelle vecchie famiglie armene”.

In Italia, quando si pensa al genocidio armeno, si pensa per associazione a La masseria delle allodole… come è andato il libro all’estero?
“Molto bene. In Italia siamo oltre la trentesima edizione. Alla trentaduesima per l’esattezza. Il libro stato tradotto in venti paesi, dal Giappone all’Ungheria passando per la Slovenia. Quest’estate andrò a Helsinki per l’uscita della traduzione finlandese. Il film dei fratelli Taviani ha contribuito a renderlo popolare, con la forza delle immagini”.

Dopo il grande successo mondiale del romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel, – uscito nel 1933 – , che racconta la resistenza eroica degli armeni sul “Monte di Mosè”, c’è stato un lungo periodo di latenza sul genocidio. In particolare per quanto riguarda il grande schermo. Almeno sino al film dei fratelli Taviani del 2007…
“In effetti c’è stata una lacuna di conoscenza visiva su questo tema. Se pensiamo a quanti film sono stati girati sulla seconda guerra mondiale: sulla Resistenza, sulla Shoà… A proposito del libro di Werfel, ebreo e praghese come Kafka: il film sui Quaranta giorni del Mussa Dagh a Hollywood è stato messo in cantiere sette volte, dagli anni ’30, ed è stato ogni volta bloccato”.

Eppure è una vicenda straordinaria di eroismo: la resistenza di poche migliaia di armeni contro l’esercito ottomano, la fuga fortunosa sulle navi francesi…
“Come un ricercatore armeno-americano ha dimostrato, con documenti ritrovati negli archivi delle case di produzione americane, avevano già realizzato lo script, la sceneggiatura, ma evidentemente ci sono state pressioni per non far partire le riprese”.

Se in Francia è reato negare il genocidio armeno, così come quello degli ebrei – e l’orientalista britannico Bernard Lewis è stato condannato alla pena simbolica di un franco… -, in Turchia è considerato un attentato contro la patria parlare di genocidio armeno…
“Solo negli ultimi anni, grazie ad alcuni professori universitari turchi che si sono battuti e hanno fatto convegni perché si parlasse anche degli armeni, le cose cominciano a cambiare… Taner Akcam, il più noto e il primo di questi, ha sopportato la prigione, è riuscito a scappare, è andato in Germania, adesso insegna negli Stati Uniti… Essendo turco e conoscendo l’ottomano antico, ha studiato i documenti in cui, a partire dal 1910, gli ideologi dei Giovani Turchi hanno teorizzato il genocidio degli armeni. Il primo di un secolo, il Novecento, che ne avrebbe conosciuti altri”.

Che cosa pensa del processo di integrazione europea della Turchia?
“La Turchia ha 75 milioni di abitanti. Integrare un paese musulmano così grande – questo penso – non è come integrare un piccolo stato centroeuropeo di due milioni di abitanti. Bisogna fare molta attenzione. L’Unione europea ha condizionato l’ammissione della Turchia al riconoscimento del genocidio armeno, e questo è un buon punto di partenza. Restano però altre questioni sospese come l’occupazione di Cipro. I diritti umani… L’articolo 301, che punisce tutti coloro che esprimono un’opinione anti-patriottica, è un altro ostacolo da rimuovere. Il rispetto di chi la pensa diversamente non è garantito per niente. A tutt’oggi, mi dicono, il più importante scrittore turco, Orhan Pamuk, non può passeggiare liberamente per le strade di Istanbul senza scorta. E non possiamo trascurare un altro aspetto, legato a quello demografico: gli equilibri europei rischiano di cambiare sensibilmente con l’ingresso della Turchia, per via dei meccanismi politici comunitari, basati sul numero di cittadini membri… Pensiamo a un possibile asse con la Germania, che ha 80 milioni di abitanti… ”.

Nel ’91, dopo il crollo dell’Unione sovietica, la Repubblica Armena, è diventata indipendente. Come stanno gli armeni che vivono laggiù?
“Si tratta di una piccola repubblica che non raggiunge i tre milioni di abitanti. Non ha risorse energetiche, e sta puntando sul turismo disponendo di bellezze uniche, artistiche e paesaggistiche. Non ci sono minoranze etniche, a parte una ridotta percentuale di curdi. Che però sono zoroastriani e non musulmani. Quindi non è minacciata, a differenza della Georgia, da tensioni geopolitiche su base etnica. I vicini, penso a Azerbaigian e Turchia, sono ostili e armati fino ai denti. Per far passare le merci, gli armeni si devono rivolgere alla Georgia. Dall’Iran arrivano turisti che vengono a ubriacarsi con il famoso cognac e il vino armeni, e tornano in patria alticci perché là non possono bere… Turismo islamico alcolico”.

BOX SUL PREMIO

Il “Premio Ostana: scritture in lingua madre”, giunto quest’anno alla settimana edizione, si tiene nell’omonimo borgo occitano ai piedi del Monviso, ed è dedicato alla biodiversità culturale che resiste alla spinta della globalizzazione: “Incontri, intrecci e confronti fra lingue di varie parti del mondo, rappresentate dagli autori premiati, che sono ambasciatori della cultura del loro popolo”. Tra i premiati: Jaques Thiers, scrittore, poeta, professore di lingua e letteratura corsa; il finlandese Niillas Holmberg, autore saami, poeta, un musicista, cantante e anche attore teatrale e televisivo; e Jun Tiburcio Perez Gonzales, nato in Chumatlá, nella sierra del Messico, cantore della sua terra in poesia e in prosa, insegnante di educazione indigena. Il suo nome d’arte, Jun, in lingua tutunakú significa colibrì, animale sacro e protagonista dell’incontro, intitolato “La transitorietà della vita nella metafora del colibrì”. Ad Antonia Arslan, scrittrice italiana di origine armena, autrice di diversi libri sul genocidio del suo popolo – compresi i romanzi La masseria delle allodole, La strada di Smirne e Il rumore delle perle di legno – ha ricevuto conferito il Premio Nazionale e la cittadinanza di Ostana, nell’anno in cui ricorre il centenario del Medz Yeghern, il genocidio armeno.

 

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