I Sommersi e i salvati. Come nell’opera di Primo Levi. Sommersi come gli ebrei deportati, e per la maggior parte morti, nei campi di concentramento di tutta Europa. O come i delatori, anch’essi in parte sommersi dalla giustizia post-bellica, quando sono stati processati per collaborazionismo. Ci sono italiani che hanno consegnato, molto spesso venduto, intere famiglie di ebrei agli ufficiali nazisti. Di queste persone adesso c’è una lista. La lista nera dei delatori italiani. Ma poi ci sono anche i salvati. C’è chi ce l’ha fatta. Ci sono gli ebrei che sono riusciti a scampare alle persecuzioni dei tedeschi. E hanno potuto farlo anche grazie a altri italiani. Qualcuno li ha protetti e nascosti, anche a costo della sua vita. Sommersi e salvati quindi. Perché la verità ha sempre più di una sfaccettatura. Tutto questo verrà presto raccontato in un libro, uscirà in autunno e raccoglierà i risultati di più di due anni di ricerche.
La ricerca e il libro
L’indagine “Dopo il 16 ottobre 1943” è uno studio che si basa su documenti, testimonianze e libri. Mira, appunto, a raccontare “i sommersi e i salvati”, con storie e numeri, a partire dal rastrellamento del ghetto di Roma avvenuto proprio il 16 ottobre 1943. Quanti erano, chi erano e cosa hanno fatto coloro che aiutarono fascisti e nazisti nelle operazioni di rastrellamento, ma anche chi coprì gli ebrei che volevano sfuggire alle deportazioni. L’inchiesta è stata condotta da Silvia Haia Antonucci, responsabile dell’Archivio della Comunità ebraica romana, da Claudio Procaccia, direttore del Dipartimento Cultura della Comunità, dallo storico Amedeo Osti Guerrazzi e del demografo Daniele Spizzichino. L’iniziativa è nata grazie alla proposta del presidente della Fondazione Museo della Shoah, Leone Paserman, che l’ha anche finanziata. E si è avvalsa dei documenti dell’Archivio Storico della Comunità romana e del Libro della memoria di Liliana Picciotti.
Storie di sommersi e di delatori
Amedeo Osti Guerrazzi è colui che ha studiato le carte e ha compilato la lista dei delatori, che per evitare una possibile caccia all’uomo postdatata, rimane al momento top secret. Lo storico ha studiato gli atti processuali del Dopoguerra, soprattutto quelli relativi ai processi dei collaborazionisti. Si è poi basato su articoli della stampa dell’epoca: “A Roma c’erano 73 uomini della Gestapo – spiega – E, visto il numero, si affidavano ai collaborazionisti italiani. Questi per la maggior parte erano persone che abitavano nel Ghetto di Roma e che conoscevano personalmente gli ebrei che andavano a denunciare”.
Tra queste storie c’è quella di una signora che fa l’interprete in Via Tasso, dove si trovano le sedi della prigione e del comando della polizia tedesca. Sono passate poche settimane dal rastrellamento nel ghetto del 16 ottobre 1943 e suo marito è ebreo: nell’epoca dei grandi sospetti e della grande paura decide lei di denunciarlo. L’uomo viene deportato ad Auschwitz. Non tornerà più. Ma la delazione, per paradosso, si rivolta contro la stessa interprete: viene denunciata a sua volta, perché, tramite la segnalazione, aveva rivelato di essere sposata con un ebreo. “Gli ebrei – sottolinea Guerrazzi – venivano spesso denunciati da vicini di casa, da portieri, ma anche da familiari e negozianti. Anche da altri ebrei”.
Ma non ci sono solo le spie, ma anche i cosiddetti “mediatori”. Ci sono italiani cioè, che si fingono intermediari, raccontano agli ebrei di conoscere soldati della Gestapo e dicono di poterli aiutare: “Tu mi dai 500 lire e io chiedo ai tedeschi informazioni sui tuoi parenti deportati dopo la razzìa del 16 ottobre”. E a quel punto, scatta la denuncia. Lo stesso inganno – abietto – veniva fatto con gli ebrei che vendevano oro agli italiani. Sono delatori perfino le guide turistiche. Alcuni ebrei lavorano come venditori di cartoline e gadget a quei pochi turisti che ci sono a Roma (e sono più che altro tedeschi): quattro di loro, il 6 gennaio 1944, vengono denunciati al Colosseo da un italiano che lavora come guida. Arrestati e deportati, non sopravvive nessuno. Secondo Guerrazzi sul totale delle deportazioni che sono avvenute a Roma dopo il 16 ottobre “la metà sono di responsabilità italiana. Derivano cioè, dall’operato dei delatori”.
Storie di salvati
Silvia Haia Antonucci racconta invece le storie dei salvati: “Ci sono stati anche tanti italiani che hanno messo a repentaglio la loro vita salvando gli ebrei. Sono normali cittadini, ma anche istituzioni religiose”. In questo secondo caso la faccenda si fa complicata, perché monasteri e Chiese chiedevano una retta per accogliere famiglie in pericolo. C’è chi pretendeva la conversione e chi chiedeva cifre troppo alte. Alcuni volevano che i bambini baciassero il crocifisso. “La scelta dei conventi era molto personale, dipendeva da struttura a struttura” afferma Antonucci.
Quello che emerge è che non c’era mai un unico rifugio, le famiglie si spostavano continuamente. Ci sono casi di persone che passavano da monasteri a scuole, fino a essere protetti nelle abitazioni di cittadini che non volevano niente in cambio. Alcuni si nascondevano nelle strutture sanitarie. Una storia interessante è quella di un caso inverso: ci sono ebrei che hanno nascosto dei soldati che avevano disertato, come nel caso di due ufficiali italiani che si erano nascosti nelle grotte.
Ricostruire la memoria
“Abbiamo voluto raccontare il dopo 16 ottobre” dice Claudio Procaccia. “Abbiamo – continua – studiato documenti, testimonianze, libri e archivi. Abbiamo analizzato carte e sentito persone, i figli di quegli ebrei che hanno vissuto il ghetto di Roma all’epoca della guerra”. I deportati, prima del 16 ottobre, “erano soprattutto donne e bambini. Gli uomini scappavano perché avevano capito che i rastrellamenti riguardavano soprattutto persone in grado di lavorare a lungo e duramente. Dopo il 16 ottobre invece, venivano catturati soprattutto gli uomini, perché uscivano dai nascondigli a cercare provviste. Mentre donne e bambini rimanevano al sicuro”. Procaccia aggiunge un dato: “L’85 per cento di coloro che facevano parte della comunità ebraica di Roma si è salvato. Vuol dire che, nonostante le delazioni, il territorio rispose positivamente”. Più salvati che sommersi alla fine quindi. “Abbiamo voluto ricostruire la memoria” conclude Procaccia, perché, come diceva Primo Levi, “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”.