Qualche giorno fa, a Milano, le associazioni di categoria dei taxi hanno vinto una battaglia: il giudice ha stabilito il blocco di Uber Pop, il servizio che consente ai privati di offrire passaggi a pagamento grazie alla app californiana. Hanno vinto una battaglia, ma sono destinati a perdere la guerra.

I giudici applicano la legge ma, può succedere, che la legge sia sbagliata. Nel senso che non è più adatta al tempo in cui viene applicata, visto che il mondo è cambiato troppo rispetto a quando è stata scritta e ora rischia di produrre risultati opposti rispetto a quelli per cui era nata.

Il parere presentato dall’Autorità di regolazione dei trasporti dice esattamente questo: i tassisti stanno abusando da anni della condizione di semi-monopolio che hanno in cambio della qualifica di “servizio pubblico”.

E quindi è ora di cambiare la legge. Anche per distinguere tra i vari servizi che stanno nascendo, separare la sharing economy (cioè la condivisione della propria auto per ammortizzare le spese) dai nuovi servizi a scopo di profitto.

Il settore del “trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea” è regolato dalla legge del 15 gennaio del 1992 che stabilisce regole per taxi e Ncc, noleggio con conducente. Nel 1992 non esisteva Internet, figurarsi le app. Il mondo è cambiato. E finora i tassisti hanno approfittato parecchio della loro condizione protetta.

L’Autorità dei trasporti ricostruisce la composizione della tariffa nella grandi città, un sistema così capzioso che sembra pensato apposta per rendere imperscrutabile la somma totale prevista per una certa corsa, per cui si possono spendere 10 o 20 o 30 euro per lo stesso tragitto.

Si compone di un ammontare fisso iniziale (2-3 euro) ed, eventualmente, di un importo minimo per ciascuna corsa. A tali componenti se ne sommano ulteriori due: una in funzione del tempo di sosta o per tratte percorse al di sotto una certa velocità (20-30 euro orari) ed una seconda componente in base ai km percorsi (0,7-1,15 euro al km). Quest’ultima, nelle grandi città italiane (Roma, Milano, Torino e Firenze), cresce all’aumentare del percorso. Alla tariffa di base si aggiungono, inoltre, supplementi per il servizio notturno (2-3,5 euro), per quello festivo (1,5-2,5 euro), per la chiamata via radio-taxi (0,6 a 3,5 euro), per ogni bagaglio trasportato (0,3-1 euro), per numero di passeggeri eccedenti tre, per il trasporto di piccoli animali domestici, per il trasporto di sci, etc. Esistono poi delle tariffe fisse per determinati collegamenti, tipicamente da e verso l’aeroporto”.

Ma la dimostrazione che i tassisti si sono comportati come i peggiori monopolisti, cioè spremendo i propri clienti per ottenere una rendita di monopolio è nel passaggio che segue:

Riguardo alle dinamiche tariffarie, per le città campione, negli ultimi anni si sono registrati aumenti di norma superiori a quello dell’inflazione. Ad esempio, tra il 2006 ed il 2014, a fronte di un aumento medio dei prezzi del 15% (dati Istat), a Roma le tariffe sono aumentate del 37%, a Firenze del 29% e a Milano del 23%”.

Cioè i prezzi sono saliti quasi il doppio dell’inflazione. In un sistema di concorrenza perfetta, la differenza dovrebbe essere zero. Ma i tassisti, finora, hanno potuto fare quello che volevano, spennando i clienti senza offrire alcun miglioramento nella qualità dei servizi (eufemismo).

Inoltre, a osservare i prezzi, sembra anche che i tassisti siano venuti meno al proprio ruolo di componente essenziale del trasporto pubblico. E si sono evoluti in una forma di “trasporto per pubblico ricco”. Ecco cosa scrive l’Autorità:

Mentre i livelli delle tariffe non sembrano collegati al rapporto tra numero di taxi e densità della popolazione residente, si registra, invece, una correlazione positiva tra tariffe e reddito medio della popolazione residente, ad indicazione che il servizio di taxi soddisfa principalmente taluni segmenti del mercato del trasporto locale non di linea: in particolare, quello della domanda della popolazione con reddito medio-alto, dell’utenza business e, in parte, quello legato al turismo. In tale segmento di mercato, la natura complessa della tariffa, la diversa combinazione delle sue componenti e gli importi diversi da città a città non consentono di stimare in anticipo il prezzo della corsa”.

Non c’è, insomma, alcuna ragione per difendere l’attuale sistema di taxi. Che va completamente ripensato: l’Autorità suggerisce di liberalizzare licenze, vincoli territoriali, tariffe e addirittura di convertire i taxi in una un trasporto destinato a “specifiche categorie di utenti” o pronti a intervenire “in condizioni di domanda debole”. Non sarebbe male, in effetti, che i taxi si concentrassero per esempio sulle persone disabili o per collegare piccoli centri abitati per i quali non è conveniente attivare un servizio di bus. Il tutto a prezzi calmierati, ovviamente.

Giustamente l’Autorità invita poi a distinguere tra car sharing e servizi come Uber. L’azienda californiana è rivoluzionaria, è il simbolo di un mondo che cambia. Ma è anche una di quelle multinazionali che riesce ad aggirare il fisco facendo affluire le proprie entrate là dove le imposte sono più basse, che genera pochi posti di lavoro vecchio stile e molte opportunità di reddito. Il confine tra “arrotondare” guidando un’auto Uber Pop e fare il tassista sottopagato è sottile.

L’Autorità propone di regolare, limitare, stabilire parametri: difficile nell’era di Internet ma cercare un compromesso tra la preistoria della legge del 1992 e il vuoto normativo assoluto è necessario.

I taxi hanno perso, i loro clienti hanno pagato per anni tariffe altissime scollegate da ogni logica diversa dal profitto di monopolio. E’ il momento di cambiare il sistema. E la legge.

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