Mentre sto sistemando la traduzione per la pubblicazione degli interventi delle attiviste laiche antifondamentaliste Maryam Namazie, Inna Shevchenko, Marieme Helie Lucas e Nadia El Fani, che lo scorso marzo sono passate per Genova, Torino e Imola invitate da Marea per i suoi vent’anni, arriva la notizia dell’enorme eco che sta ottenendo l’iniziativa della giornalista iraniana esule in Europa Masih Alinejad.
Dalla sua pagina Facebook, La mia libertà clandestina, Masih invita le donne musulmane a togliersi il velo e a mandare immagini del loro gesto liberatorio. Ne sono arrivate a migliaia, e alcune dimostrano che ci sono anche uomini che le supportano.
Brandito come scelta di libertà contro la dissolutezza dei costumi occidentali, contro l’Occidente tout court o come conferma dell’appartenenza identitaria al paese e alla religione d’origine il velo è oggetto di un dibattito per nulla pacifico anche dentro ai movimenti delle donne.
Quando, nel 2006, a due anni dall’uscita di Senza velo – Donne nell’islam contro l’integralismo, Marea ospitò un seminario di due giorni dal titolo La libertà delle donne è civiltà, declinando la civiltà, in pieno dibattito sullo scontro tra culture, come imprescindibilmente connessa all’ottenimento dei diritti civili, politici e di cittadinanza per le donne la cosa che mi colpì maggiormente fu l’impossibilità, da parte di Sarvi, attivista iraniana che lavorava per una radio clandestina anti-regime di togliersi il velo, anche nel privato delle nostre cene casalinghe.
Mi disse che per lei sarebbe stato troppo pericoloso, perché anche in Italia c’era chi controllava i movimenti dell’opposizione al regime, e il primo fattore di rischio era, per le attiviste, proprio lo svelarsi. Non si rischia la vita solo se accusate di critica al Corano (come nel recente caso del linciaggio della giovane afgana Farkhunda): per le donne anche mostrare il capo può significare morire in molte parti del globo.
L’obbligo di Sarvi mi parve una violenza insostenibile, un obbligo subdolo perché in apparenza lieve nella sua materialità, che invece grava pesante sul corpo come monito di sottomissione al patriarcato e alla fede religiosa, esplicitamente rivolto alle donne, sotto forma di un gentile, magari colorato, fazzoletto di stoffa. Gli uomini devono essere tenuti al riparo dal richiamo del desiderio, perché, è noto, le donne sono depositarie del varco verso l’inferno, e le chiome libere ne sono vergognosa allusione.
Quando Sarvi se ne andò le dissi, nell’abbracciarla, che il mio più grande desiderio sarebbe stato, in un futuro incontro, quello di poterle vedere i capelli.
Per questo è commovente la risposta di Masih nell’intervista sulla prima impressione provata una volta levato il velo: “Ho sentito il vento tra i capelli. La prima esperienza è questa: gioire dei capelli che, davvero, danzano”.