EISENSTEIN IN MESSICO - 3/5
di Peter Greenaway – Messico/Finlandia/Belgio/Francia/Paesi Bassi 2014, dur. 105 – Con Elmer Bäck, Luis Alberti
I dieci giorni che sconvolsero Sergei Eisenstein. L’arrivo, la permanenza, il rapido addio del grandioso regista russo in terra messicana nell’ottobre del 1931 per girare Que viva Mexico. Film incompiuto, che poi diventò uno jacopettiano “mondo cane” centroamericano, vampirizzato dallo scrittore Upton Sinclair, produttore dell’opera. Greenaway torna pimpante e per nulla funereo a rappresentare Eros e Thanatos. L’iniziazione alla vita attraverso la scoperta dell’omosessualità è fatta di conversazioni a mitraglia con rapidi excursus storico-artistici-cinematografici per chi fosse a secco d’inizio ‘900 (“Marinetti un pessimo poeta, Walt Disney l’unico che creava dal nulla”), rapidi carrelli laterali, spazio deformato con grandangoli e split screen, il celebre “montaggio analogico” soprattutto nei primi venti spiritosi minuti. La cavalcata furiosa su chi ha rivoluzionato il cinema mette al centro della scena e del racconto il suo creatore, con quel corpo clownesco su cui poggia il peso della storia patria e delle purghe staliniane contro i gay. Il risultato è che una volta tanto Greenaway si affida molto alla discorsività della narrazione e Eisenstein in Messico si fa film brioso e danzante, senza il peso intrinseco di simbolismi esibiti (le maschere scheletriche) e di barocchismi scenografici fini a se stessi (la camera d’albergo palco teatrale illuminato dal pavimento). E poi storicamente s’impara parecchio. 3/5