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FURY di David Ayer
Usa 2014, dur. 134 – Con Brad Pitt, Shia LaBoeuf
Mors tua, vita mea. La seconda guerra mondiale da dentro l’abitacolo di un carro armato Sherman è una sottile linea rossa che lega i testicoli saltati ai soldati di Fuller, il realismo impaurito dei marines di Spielberg, la spietatezza dei Bastardi senza gloria di Tarantino. Non ci sono pacifismi che tengano: lasciare in vita il nemico significa lasciare in vita il tuo assassino. La lezione da imparare a memoria è per il soldato novellino. L’insegnante è il sergente Wardaddy. Ammazzare senza pietà il nazista prima che lo faccia lui. In mezzo al pantano, al grasso e allo sporco dei campi tedeschi dell’aprile ’45, Fury – è il nome del carro armato in cui siedono e combattono i cinque protagonisti – deve macinare terreno e distruzione, mentre la guerra sta finendo, e pur essendo terribilmente vulnerabile (sei sherman per far fuori un panzer, si diceva). Cupo, nerastro, sanguinolento, senza mai un vero spiraglio di luce, il set di Ayer è un campo di battaglia infinito, in cui si rincorre di continuo il destino di morte e si dà comunque un senso disperato alla vita. La prima ora è di una spaventosa compattezza narrativa e formale; seconda parte più “dolce” inclinata sul piano del cameratismo tra compagni di carro armato, modello cantilena “con lui ammazziamo e con questo chiaviam” di Full Metal Jacket, ma anche e soprattutto a riecheggiare, nel rapporto sergente/soldato (Pitt/LaBoeuf), il pianto di Achille per Patroclo. 4/5