Cultura

Edith Piaf, una mostra per celebrarla: rockstar ante litteram, il ‘passerotto parigino’ continua ad affascinare

Alla Bibliothèque Nationale de France fino al 23 agosto, un'esposizione che racconta la grande artista scomparsa il 10 ottobre del 1963. La retrospettiva esplora le diverse sfaccettature del personaggio: la donna del popolo, la cantante, l’amante e infine la leggenda

Sono le indimenticabili note delle canzoni di Edith Piaf, Allez, venez M, Non, rien de rien, La vie en rose che risuonano nella Galerie François Mitterrand della Bibliothèque Nationale de France (www.bnf.fr) e che ci invitano a Parigi fino al 23 agosto a riscoprire le melodie, le immagini, i testi che ne hanno fatto una leggenda. Grazie alla sua voce, la cantante di strada divenne una delle figure emblematiche della cultura popolare francese del dopoguerra, protagonista del music-hall, celebre nel mondo intero, la Parigina, la Francese per eccellenza. La “môme” [ragazzina] Piaf, Edith Giovanna Gassion, per l’anagrafe, avrebbe compiuto cento anni 19 dicembre di quest’anno.

E’ un “marchio francese, incontestato, un monumento” scrivono i curatori dell’esposizione, dal titolo essenziale: Piaf [passerotto, in dialetto]. Organizzata intorno a quattro momenti tematici, la retrospettiva esplora le diverse sfaccettature del personaggio: la donna del popolo, la cantante, l’amante e infine la leggenda. Si presentano oltre quattrocento fra fotografie, lettere anche di ammiratori – ne riceveva a migliaia – manifesti, dischi, registrazioni, pellicole cinematografiche, riviste, nonché il minuscolo – poiché l’artista era alta 1 metro e 47 appena – abito di scena nero sospeso al soffitto all’entrata, con la gonna plissettata e le maniche lunghe, dono della sua ultima segretaria Danielle Bonel: Edith Piaf era convinta, non a torto, che il nero facesse risaltare la sua voce; non voleva inoltre che lo spettatore venisse distratto dal suo aspetto.

Lettera di Jean Cocteau a Edith Piaf. 9 agosto 1960

Il nero, certo, ma contribuì a creare il mito anche il blu-bianco-rosso della bandiera d’Oltralpe, nel film diretto da Sacha Guitry Si Versailles m’était conté [Se Versailles mi fosse raccontato], del 1954, in cui Edith idosa le vesti della rivoluzionaria e interpreta La Carmagnole (Ah! Ça ira, ça ira), motivo simbolo della Rivoluzione: all’apice della carriera, negli ani ’50, volle immedesimarsi nella povera gente, oppressa e in rivolta. Era figlia e nipote di saltimbanchi, nata da un acrobata e contorsionista, a sua volta figlio di un cavallerizzo e fratello di acrobate e trapeziste, che compaiono nelle cartoline ora esposte alla Bibliothèque insieme, fra gli altri, agli oggetti portafortuna che Edith portava con sé nelle tournées: medaglie con il volto dei santi, statuette di Santa Teresa o della Vergine… Su una cartolina ingiallita compare il ritratto della gracile e minuscola ragazzina che, mentre il padre si esibiva nei suoi numeri, strillava canzoni d’amore nei cortili dei palazzi popolari in attesa che le gettassero le monetine. La scoprì e la lanciò nel 1935 il direttore del cabaret di lusso Le Gerny’s sito nei pressi dei Campi Elisi.

Il mito, lei stessa lo inventò per costruire il proprio personaggio: raccontava di essere nata in strada, nel quartiere popolare parigino di Belleville, ma nel poco lontano ospedale Tenon conservano un certificato che attesta la sua nascita. Subito abbandonata dalla madre, di origini berbere e italiane, cantante di strada assuefatta alla morfina, la piccola si trovò a vivere con la nonna che gestiva una casa di tolleranza in Normandia. L’esposizione intende preservare l’aspetto ribelle e meno convenzionale dell’artista, per la quale la celebrità nulla contava a fronte della concretezza della scena, poco valeva il denaro rispetto all’importanza degli amici e degli innumerevoli amanti, che fossero operai, attori, sportivi, colleghi; riscopriamo pertanto la storia di Edith Piaf, vera e propria rockstar ante-litteram, che ha “bruciato” la propria vita e continua ad affascinarci, anche nel momento della sua morte, avvenuta il 10 ottobre del 1963, sei ore prima appena di quella del suo grande amico poeta Jean Cocteau. La memoria del “passerotto parigino” contiene anche i guanti appartenuti al suo grande amore, il pugile Marcel Cerdan scomparso nel 1949, una matrice in rame dorato dalle prime registrazioni della casa discografica Polydor, un testo manoscritto di Roland Barthes del 1948, preparatorio di una conferenza sulla canzone popolare che avrebbe tenuto a Bucarest.