Il giorno del voto. Giovanni, a dire la verità, sembra più emozionato dalle ultime pedalate del Giro d’Italia, dalle scintille del suo Genoa e improvvisa derby sul prato con Nino, il sampdoriano, e Mario che crede di essere una sorta di reincarnazione di Totti.
Eppure anche loro, che hanno meno di dieci anni, sentono la strana elettricità delle elezioni. Avvertono qualcosa di solenne. Mio marito ed io abbiamo deciso di portarli con noi al seggio. Non c’è più quella passione che si avvertiva in passato e pure a volte sconfinava nella tensione. In dibattiti accesi. Piuttosto si respira una sottile rassegnazione, l’idea di dover adempiere a un rito.
Ma questo i bambini non lo capiscono. Vedono le bandiere sulla porta, il carabiniere e l’auto con il lampeggiante. Avvertono, mi pare, quasi il mistero di quella stanza dove solo i grandi possono entrare. Della cabina dove si entra da soli e succede qualcosa di personale. Segreto.
“Chi sarà il capo della Liguria?”, chiede Mario, che con i suoi quattro anni percepisce soprattutto l’aspetto competitivo, battagliero del confronto. E noi proviamo a spiegargli che in gioco non c’è solo la vittoria di un candidato, ma il nostro destino. Gli mostriamo le terra che hanno intorno: le strade, gli ospedali, le case (troppe, cresciute ovunque), i boschi, il mare; proviamo a spiegare che la sorte di tutto questo dipende anche dal piccolo foglio di carta colorata su cui abbiamo fatto una croce. Chissà cosa gli resterà di questi discorsi che a noi adulti paiono sempre più vuoti. Peserà molto di più, forse, quello che vedranno in tv. I volti sicuri e arroganti di certi vincitori, quell’aspetto affascinante di forza.
“Chi è il più potente?”, chiede infatti Nino che forse paragona ministri e governatori ai condottieri con l’armatura scintillante con cui gioca ai soldatini. La forza, la fama affascinano. Le scambiamo per merito. Virtù.
Mio marito, che per lavoro di potenti ne ha incrociati tanti, l’ha sempre detto: “Ne salverei una manciata. Meno. E anche i migliori rischiano sempre di contaminarsi”.
Forse aveva ragione Lucio Dalla: “L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Purché sia davvero una scelta, non una rinuncia.
il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2015