Cinque indicatori per raccontare la condizione delle mamme nel mondo. Cinque parametri, per fotografare come cambia la qualità di vita di una donna, quando sceglie di avere un figlio: salute materna e rischio di morte per parto, benessere dei bambini e tasso di mortalità entro i 5 anni, grado di istruzione, condizioni economiche e Pil pro capite, partecipazione politica delle donne al governo. Su questo si basa il 15esimo rapporto di Save The Children sullo Stato delle Madri nel Mondo, che tratteggia come su un Atlante la classifica dei Paesi dove lo stato di salute della madre, il livello di istruzione, le condizioni economiche e le politiche e sociali garantiscono il benessere alle mamme e ai loro figli.
Una linea immaginaria che dal Nord Europa si sposta in declino fino al Sud del mondo.
Sono ancora una volta la Finlandia, la Norvegia e la Svezia ad aggiudicarsi il podio di questa classifica, seguiti da Islanda, Paesi Bassi, Danimarca, Spagna, Germania, Australia e Belgio (questi ultimi due a pari merito), mentre tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana, si collocano in fondo alla classifica, con in coda la Somalia, preceduta dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) e, a pari merito, da Niger e Mali.
E l’Italia? Quest’anno l’Italia fa un passo in avanti, portandosi dal 17° all’11° posto, ma il cambiamento è dovuto all’aumento della presenza delle donne al governo (passata dal 20,6 al 30,6%, dato che tuttavia rimane inferiore a quello di paesi come l’Angola-36,8%- e il Mozambico-39,2%-) e non alle politiche di welfare legate alla maternità, che maggiormente incidono sulla vita di tutte noi.
Se da un lato, infatti, secondo i dati, le condizioni di salute delle mamme e dei bambini si mantengono a livelli alti (il tasso di mortalità femminile per cause legate a gravidanze e parto è pari a 1 ogni 20.300, quello di mortalità infantile è di 3,8 ogni 1000 nati vivi), come abbastanza alto è il livello di istruzione delle donne – pari a 16,3 anni di formazione scolastica – al contrario subisce un decremento il reddito nazionale pro capite, che passa da 35.290 a 33.860 euro.
Molti dei fattori discriminanti per le donne in Italia, evidenziati sempre da Save the Children nel rapporto “Mamme nella crisi” restano in piedi, soprattutto se legati alla parità di genere in ambito lavorativo 8soprattutto dopo la matenrità) e al congedo di paternità, che ancora fatica a decollare non solo in termini di diritto ma anche culturalmente. Non a caso i paesi del Nord Europa in testa alla classifica sono anche quelli che garantiscono il più ampio congedo parentale maschile. Ma c’è di più, due recenti indagini pubblicate dall’Economist, attestano gli effetti positivi legati al congedo di paternità non solo dal punto di vista pedagogico ma anche economico. Una maggiore presenza dei papà nei primi mesi di vita dei figli avrebbe effetti positivi sulle capacità di apprendimento dei piccoli e contribuirebbe a un’economia più equa.
Un effetto a catena, quindi, che dovrebbe far riflettere perché non solo comporta vantaggi legati alla crescita dei bambini ma favorisce il ruolo delle donne all’interno dell’economia, permettendone il reintegro lavorativo e una più equa suddivisione dei compiti familiari.
Anche da questi presupposti prende le mosse l’indagine “Essere madri ai tempi del precariato” condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Roma La Sapienza e dell’Università degli studi Guglielmo Marconi, in collaborazione con il blog www.genitoriprecari.it e l’associazione di genere Punto D www.puntod.eu. La ricerca vuole cogliere e analizzare gli aspetti legati alle conseguenze delle occupazioni instabili sulla vita delle persone e delle donne in particolare. Chiunque fosse interessato può partecipare all’indagine in forma anonima compilando il format dalle pagine del blog genitoriprecari.