A mostrare i filmati dell’Isis oltre a turbare gli animi sensibili si fa il gioco del nemico? Monica Maggioni, che da quelle parti ha lavorato a lungo, tempo fa ha posto la domanda e ha dato la risposta, anche scrivendoci un libro: sì! Perché quei filmati usano i nostri lemmi e moduli narrativi, dagli Steven Segall ai Tomb Raiders, provengono dal nostro mondo come un foreign language non dissimile dai foreign fighters, al nostro mondo innanzitutto si rivolgono perché la forza di Isis risiede nelle nostre instabilità, reali e supposte tali. Realissime sono quelle delle tante banlieues, territoriali e mentali in cui crescono generazioni rigonfie di rabbia, ormoni e televisioni, che impugnano una narrazione alternativa a quella dello sviluppo continuo e alla lunga pacificante che costituisce la vera utopia dell’Occidente e forse anche di cinesi e indiani. Un inseguire il valore anziché nutrirsi di valori che fa un tutt’uno con la laicità. Tutto il contrario di quel che gira per la testa del radicalismo islamico che, in balia di imperi altrui da oltre mille anni, è arrivato a proporsene la edificazione di uno tutto proprio in chiave “nazista” anziché progressista. Ed è dunque, quali che siano le sue ragioni e spiegazioni storiche, inevitabilmente amalgamato dalla ostilità verso i dominatori di prima, cioè noi, e dunque è nostro dichiaratissimo nemico.

Formigli, che condivide l’analisi di Maggioni e che quest’anno è andato davvero sul posto, ieri sera l’ha avvalorata con un gesto apparentemente opposto: mostrare, e bene a fondo, quel che Isis racconta di sé e di noi, e in rapporto a noi. E il contesto saggistico e riflessivo ha abbondantemente evitato il rischio di fare gli amici del giaguaro. Anzi, avrà provocato qualche sussulto di mobilitazione nei divani e nelle poltrone dove si adagiavano i corpi degli spettatori, improvvisamente calati in uno scenario di guerra potenzialmente vera (gli scarponi sul terreno) o almeno indiretta. Come quella suggerita da Luttwak attraverso gli alleati in zona (curdi, egiziani), distinguendo fra turchi infidi e turchi democratici, fra sauditi realisti e quelli che finanziano in lungo e in largo l’entusiasmo religioso e le sue armi non solo spirituali.

Spettatori pochi, solo il 3,57% perché tutto ciò che riguarda l’estero si sa che non tira con l’auditel, specie fra le donne e gli spettatori con minore titolo di studio. Ma serata notevole non c’è che dire, quanto inquietante, culminata nella presenza di Karim Franceschi, l’italo-curdo che ha combattuto a lungo a Kobane, un foreign fighter anche lui, ma dalla parte opposta all’Isis che considera una riproposizione 2.0 dell’islamismo feudale. Karim, che col suo nome susciterebbe la diffidenza, a dire poco, di quelli che paventano l’invasione degli immigrati, senza neanche sospettare che proprio chi ne fugge sarà colui che meglio affronterà il nazismo mediorientale nelle menti e sul campo, se mai si dovesse arrivare a tanto.

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