Pochi giorni fa sono tornato dopo tanto tempo a un concerto di Simone Cristicchi. Erano infatti diversi anni che non lo rivedevo su un palco con uno spettacolo fatto principalmente di canzoni.
Vidi Cristicchi dal vivo per la prima volta al Premio Lunezia 2006. Vinse il premio “Nuove stelle” e capii da subito che un conto era il Cristicchi del disco, altro era quello sul palco: dal vivo aveva una forza e una capacità scenica impressionante. Ricordo che mi impressionò particolarmente uno sketch che parlava dei cantautori di un tempo, fino all’idea di una netta linea di demarcazione tra la canzone d’autore e i “fabbricanti di canzoni”. Tutti concetti presenti nel suo primo disco, sia chiaro – che si intitolava proprio “Fabbricante di canzoni”, appunto –, ma dal vivo i suoi brani erano un’altra cosa, completavano la propria scrittura con la performance attoriale di chi sul palco ha, in maniera innata, tempi d’azione che funzionano.
Tutto questo mi spinse nel 2008 a inserire Cristicchi in una selezionatissima schiera di artisti, per un libro intitolato Cantautori novissimi e in cui descrivevo proprio le sue peculiarità esclusive in una capacità teatrale fuori dal comune: sdoppiamento di personalità e ironia per esempio erano armi che accennavano al fatto di “recitare” la canzone, non solo cantarla. Inoltre c’erano brevi sketch monologanti, assolutamente funzionali e decisivi per la caratterizzazione dello spettacolo. Nel libro dicevo che tutto questo era forse in uno stato embrionale, ma che c’era e faceva la differenza.
In questi anni poi l’ho finalmente visto alle prese con spettacoli teatrali veri e propri: col monologo “Li romani in Russia” e l’anno scorso con lo spettacolo estremamente fortunato sull’esodo giuliano-dalmata, “Magazzino 18”.
A teatro ho trovato un artista perfettamente capace di restituire la forza dei temi raccontati e, soprattutto nella seconda opera, colpiva la bravura di scrivere canzoni che si inserivano perfettamente nella vicenda, scandendo i tempi dello spettacolo: brani validi sia singolarmente, sia nel rapporto dialettico con i fatti narrati e col loro racconto.
Infine, ho rivisto Cristicchi lo scorso anno, sempre al Premio Lunezia, premiato questa volta per “Magazzino 18”, appunto; mi pare di ricordare che sia salito sul palco dopo Max Pezzali, comunque di certo con una folla ancora agitata per l’artista precedente. Ebbene: di fronte a una piazza gremita da tremila persone, l’ho visto fare un monologo di 15 minuti su argomenti non proprio leggeri come foibe ed esodo istriano, con la gente che pendeva dalle sue labbra.
Pochi giorni fa, dopo anni, sono dunque tornato a un suo concerto.
Oggi si può ben dire che tanto teatro ci abbia restituito un cantautore che ha mostruosamente sviluppato quelle caratteristiche di performance che già in nuce erano fondamentali all’inizio della sua carriera. L’altra sera c’era una situazione al limite: l’inaugurazione di uno spazio grandissimo nella città di Pescara, appena liberato dopo la demolizione di un ex mercato ortofrutticolo a due passi dal mare; una serata fredda di maggio che minacciava pioggia.
Cristicchi dimostra oggi di padroneggiare come pochi la fruibilità dello spettacolo, sapendo quando forzare la mano, dando davvero l’impressione di aver compreso come dosare l’iconicità del pop e lo straniamento astratto e spiazzante di certi monologhi, peraltro perfetti per introdurre alcuni brani.
Anche la voce è più matura, più sicura e funzionale alla recitazione della canzone, non solo all’attenzione sull’intonazione.
Il rischio ora è che, visto l’enorme successo di “Magazzino 18”, come spesso succede in Italia la figura di Cristicchi resti sempre legata a quest’opera. Sarebbe veramente un peccato, perché con queste potenzialità e questa maturazione, da qui è lecito aspettarsi nei prossimi anni spettacoli di teatro-canzone di alto livello, con tempi e ritmi artistici diversi rispetto a quelli della discografia tradizionale: per un artista dalle caratteristiche specifiche come quelle di Cristicchi, la nascita di un nuovo spettacolo dovrebbe rappresentare il superamento e lo sviluppo “poetico” del precedente. Si dovrebbe ragionare per stagioni teatrali, non per tempi discografici e lo spettacolo dovrebbe essere molto più importante del disco che lo rappresenta.
Come succedeva per Giorgio Gaber, infatti, il disco dovrebbe essere una testimonianza dell’opera, non l’opera stessa.
Staremo a vedere.