Gli echi di storie quasi mitologiche di neopapà che festeggiavano la nascita sparendo per giorni a gozzovigliare con amici (per poi tornare pesti, squattrinati e ancora ubriachi) sono lontani e forse, leggendari quasi quanto Keyser Söse.
Conosco papà che mai e poi mai lascerebbero la famiglia per procrastinare ancora il sogno di libertà e gioventù in mezzo a qualche scapestrato giovanotto di mezza età; uomini che riconoscono e accettano il cambiamento del vento e del tempo senza troppe crisi di identità.
Ma per la maggioranza che mette la testa a posto c’è uno zoccolo duro cocciuto che resta attaccato agli antichi fulgori da patriarca scavezzacollo.
G. ha partorito da tre settimane ma è tornata a casa col pupo solo da due perché dopo il parto ha avuto bisogno di una trasfusione. Ha cercato il bimbo per molto tempo e ora che lo stringe tra le braccia nulla al di fuori importa. Poco male dunque se il compagno decida di passare il fine settimana in montagna con gli amici. La neve – ça va sans dire – non dura in eterno.
R. arriva in ospedale verso l’una di notte. Le doglie più sfiancanti arrivano verso le tre. Il marito non regge e sviene sul pavimento. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Dopo qualche ora, intorno alle sei, si riprende rialzandosi dalla barella. Quasi quasi ci sta un boccone. La moglie è vicina alla fase espulsiva. Saluta e corre al bar dell’ospedale per fare colazione: farà prestissimo. Un cappuccino, una brioche, un cannoncino dopo (nonché tutta la Gazzetta dello Sport), ritorna. Ma il bimbo però è già nato.
P. sa quali sono le priorità. A una settimana dal parto il marito decide di prendersi un giorno libero dal lavoro. Diamine! Lei è felice. Anche quando alla sera lui la saluta per andare a una grigliata tra amici.
L. dice a tutti di essere felicissimo di diventare padre fra due mesi. E nell’attesa, tutti i fine settimana gioca a fare il surfista, un Johnny Utah wannabe de noantri. La compagna e il pancione restano a casa, e quando lo raggiungono è convinto che non vedano l’ora di passare intere giornate sulla spiaggia a fotografare le sue prodezze a trenta centimetri sul pelo dell’acqua.
Mi piacerebbe poter dire di essermi concessa licenze letterarie per arrivare al punto, ma la realtà – come spesso accade – fornisce da sola spunti e aneddoti oltre l’immaginario.
Sarebbe fin troppo facile dare in toto la colpa della mancanza di cura, generosità, maturità ai diretti interessati, additandoli a cattivi della situazione. Ma sarebbe non riconoscere il peso che hanno le scelte e le decisioni prese dalle donne moderne. Le compagne al fianco di questi uomini in fondo fanno poco per far sì che le cose cambino e dopo qualche schermaglia e spallucce, si è sempre disposte a lasciar correre. Come nella migliore tradizione di madri accondiscendenti.
E se è necessario preparare le giovani donne alla qualità della lungimiranza, non tanto nell’avvistare un buon conto in banca ma nell’individuare un ragazzo che saprà diventare uomo, sarebbe cosa buona e giusta ricordare a certi neopapà che siamo nel 2015.