Kaos One, Fabri Fibra, Neffa, Dee-MO, J-Ax, Frankie Hi Nrg, Colle der Fomento, Assalti Frontali, Sangue Misto, Sottotono. Ne mancano alcuni, perché in tutto sono una ventina, ma in un unico film una parata di star del genere della musica hip hop italiana non si era mai vista. Per chi fosse già fan, ma soprattutto per chi riconosce pochi ritornelli del settore, Numero Zero, il documentario di Enrico Bisi che verrà proiettato sabato 13 giugno alle 19 durante l’undicesima edizione del Biografilm Festival, aiuta molto a capirne di più. Raccontato dalla voce fuori campo di Ensi, un freestyler che con i musicisti elencati più sopra è cresciuto e ha affinato il suo talento, torniamo agli anni ottanta quando da oltreoceano arriva in Italia, potente ed inarrestabile l’onda dell’hip hop che, come viene spiegato perbene nel doc “è una cultura nata a New York nel Bronx sul finire degli anni settanta e si fonda su quattro elementi: b-boying (il breakdancing sul pavimento stradale); il writing (sui muri delle città); il deejaying e il rap”.
Complice il primo tour italiano degli Africa Bambaataa e la proiezione di film come Wild Style (1983) e Beat Street (1984) ed anche le periferie delle grandi città del belpaese cominciano a pulsare di “zulu party”, di “scratch”, e di un fermento musicale oltretutto di notevole portata politica e sociale. A Milano, Roma, Napoli, Torino, Genova, ma soprattutto Bologna, si riadattano metrica, cadenza e sillabe con risultati incredibili, come non si era riusciti a fare in Italia con il beat per il soul e la black music negli anni sessanta e settanta. Le onde sono captate dai centro sociali, il Leoncavallo, Forte Prenestino, L’isola nel cantiere. Proprio da qui arriva una delle hit tra le prime a fondare il rap: Stop al Panico!.
Ma ci sono anche Sfila il buio di Dee-MO, gli Assalti Frontali con Terra di Nessuno, Sanguemisto con Lo Straniero, Aspettando il Sole di Neffa. “Avevo 16-17 anni nei primi anni novanta e mi sono avvicinato al genere”, spiega al FQMagazine il regista di Numero Zero, Enrico Bisi. “C’era qualcosa da imparare dietro alla canzone, i testi avevano contenuti politici e sociali forti. Per me che credevo nelle lotte e nelle occupazioni quello era il mio approdo naturale. E poi grazie al campionamento per comporre i brani sono venuto a conoscenza di una marea di black music che non conoscevo”. Altro che Jovanotti: l’underground hip-hop è roba per duri e puri, per gente che compone declamando strofe che sembrano lame affilate nel burro di una società anestetizzata dai cascami di un consumismo da spalline e bomber gonfiati.
Poi all’improvviso il botto. “Se nel 1995-96 si registra l’esplosione massima – spiega nel documentario Paola Zukar che nei primi anni novanta diresse la rivista del settore Aelle – poi nel 2000 c’è stata l’implosione e ognuno ha preso la propria strada”. Scompare lo spirito militante e come spiega Neffa, finito nell’hip hop provenendo dal metal, al posto dell’energia c’era rimasto solo l’aspetto commerciale e militare”. L’eco delle polemiche tra le star del genere, soprattutto sulla differenza tra chi è diventato mainstrem e chi è rimasto legato al rigore e purezza delle origini, non ha mai smesso di risuonare. “In generale parlavano troppo di se stessi, avevano perso il contatto con ciò che li circondava, non c’era più una vera e propria lettura della realtà”, aggiunge Bisi. “Va però detto che il sottobosco underground hip hop non è comunque mai morto. Qualcuno ha continuato a rimanere legato alla tradizione, molti altri nuovi rapper, volontariamente o meno, invece no.
L’hip hop era una possibilità di uscire dal ghetto, non ci volevano molti soldi per registrare il rap, era un riscatto sociale voluto. Ricordo solo che quando Marracash in un’intervista ha detto di collaborare con DJ Gruff la comunità rapper, quella storica, è insorta. Non è un luogo comune, ma oggi il rap è diventato più una moda che altro. Guarda l’abbigliamento, vestirsi come i rapper è praticamente la prassi, fa tendenza”. Bisi, laureato in lettere a Torino, propone una carrellata intima e rispettosa di una magmatica e magnetica scena musicale nazionale, raccolta in oltre 50 ore di girato e altrettante ore in immagini di archivio rimontate per un agile documentario corale di nemmeno un’ora e mezza. “Numero Zero è diventato realtà quando nell’intervista con Dee-MO, uno dei fondatori del rap, un puro, mi ha chiesto se nel film c’era anche J-Ax. Ero timoroso. Sono due spiriti contrapposti, vista la svolta più commerciale del secondo con gli Articolo 31 e poi in solitaria”. Ma ecco che Dee-MO sotterra l’ascia di guerra e fa in modo che il primo biopic sull’hip hop italiano prenda forma: “Se vuoi metterlo è giusto. Fa parte della storia”. Numero Zero. Ciak, azione.