Se mi chiedo quanto la fotografia possa davvero andare in profondità, non ho risposte certe e se le ho sono contraddittorie.
I presupposti sembrano remare verso la superficialità: è l’apparenza quella che si fotografa, e spesso l’abito fa il monaco. Ma poi, soprattutto, è la faccenda del prelievo da un flusso a complicare le cose. Da un’azione, da un accadimento, da un volto, il fotografo estrae arbitrariamente un frammento al momento x, e nulla vediamo del prima e del dopo. Quanto quel frammento può essere profondamente rappresentativo? Quanto la connessione tra fotografia, tempo e profondità determina i limiti della fotografia stessa?
Quello tra la fotografia e la “buccia” delle cose sembra un corpo a corpo.
Il fattore tempo non è solo quello, come detto, della sua estrapolazione e congelamento, ma anche quello della quantità di tempo che il fotografo si dà per rimanere “dentro” al soggetto, e starci di più dovrebbe significare avere maggiori possibilità – almeno sulla carta – di approfondire.
Curiosamente parliamo di profondità e quantità di tempo che, come sappiamo, attengono alla fotografia anche come elementi tecnici legati allo scatto. E qui, volendo, potremmo lanciarci in un ardito ragionamento sulla possibilità (in questo caso legata alla modalità) di approfondire in relazione anche all’inconscio tecnologico di cui Franco Vaccari parlava.
Viene in mente la presa di posizione di Baricco che qualche anno fa scatenò dibattiti, scontri e polemiche sullo spettro dei nuovi barbari che egli descriveva; tali sarebbero, chi più chi meno, tutti coloro che sgretolano una civiltà e la sua cultura passando da un approccio alla conoscenza di tipo verticale (dunque profondo e puntuale) a quello orizzontale (superficiale e istantaneo) legato alla mutazione digitale; tutta la conoscenza – asseriva Baricco – ai tempi di Google è rapida, sincopata, mordi e fuggi, e la velocità prevale su tutto, con buona pace dell’approfondimento.
Questa visione potrebbe adattarsi in qualche modo anche allo specifico della fotografia: il lago ora è un oceano, in realtà molto più profondo e con molte più specie di pesci sotto la superficie, ma quello che sembra sfidarci è invece la sua vastità che percorriamo in lungo e in largo per dire “l’ho visto tutto”, senza mai però indossare maschera e pinne.
Che poi, metafore a parte, di cosa parliamo se oggi a un fotografo per un reportage si assegnano due giorni di lavoro laddove trent’anni fa si concedevano due settimane? La profondità vuole i suoi tempi, ma la disponibilità di tempo appare oggi a molti come un lusso per vecchi intellettuali un po’ snob o danarosi appassionati affrancati dal sudore.
E’ evidente, per contro, che non basta prendersela comoda a garantire lo spessore di un progetto fotografico. Il tempo lungo non genera idee, consente lo sviluppo di quelle che già ci sono. Se ci sono, però.
E va detto che lo stesso Baricco, successivamente, riabilitò in parte la superficialità internettiana applicata alla vita come valore, in termini di vivacità, intelligenza, capacità di fare collegamenti e avere una visione se non approfondita però generale, cosa di non poco conto.
Spaziare, già, spaziare…
Beh, allora si spazia o si approfondisce?
Senza saperlo e senza volerlo, i miei lontani inizi fotografici avevano trovato una sintesi: io fotografavo… lo spazio profondo, the deep space.
Ancora studente, ancora ragazzetto, mi ero costruito in campagna un mio osservatorio astronomico, e col telescopio usato come potentissimo teleobiettivo fotografavo pianeti, nebulose e galassie. Quando mi veniva sonno, mi sdraiavo a dormire in un sacco a pelo sul cemento del pavimento, mentre insetti vari mi camminavano intorno.
Nessuno può negare che le foto in 3D abbiano…profondità!
Insomma, alla fine la domanda iniziale si dissolve nel grande gioco – gioco serissimo, beninteso – che è la fotografia e soprattutto la vita.
Profonda non è la fotografia, che forse (e sottolineo forse) per sua natura non lo è, ma profondo può essere chi la fa, e questo è tutto.