In principio era Indymedia. Nella sua declinazione digitale, per molto tempo l’attivismo mediatico è stato connesso principalmente a quell’esperienza; alla cui epoca, va detto, Internet era ancora primordiale nel suo funzionamento e soprattutto periferico nel circuito dei media.
Le proteste alla riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle nel 1999 offrirono però una decisiva opportunità di riconoscimento reciproco per attivisti e professionisti provenienti da realtà nazionali spesso lontane, connotate da agende politiche e sociali apparentemente molto diverse. E negli anni successivi si formò poi una vera e propria rete internazionale di giornalisti indipendenti, di freelance, di programmatori e di hacker. Un network mondiale dunque, ma legato al movimento “no global” e dunque per questo anche elitario, con tutti i limiti che ciò comportava: poiché composto, in fin dei conti, da realtà che partivano dalla condivisione di una base ben confinata di valori e obiettivi e quindi non potevano che esprimere un mondo polarizzato, schierato, non pienamente inclusivo.
Nel primo quinquennio del 2000 è da qui, da questo modello di attivismo mediatico così connotato ideologicamente che è arrivato l’unico tentativo di una narrazione alternativa a quella dei mass-media tradizionali. E per anni, è dai media attivisti della rete Indymedia che governi e brand hanno dovuto guardarsi. Poi è arrivato il web 2.0, con i suoi assai “controversi” social network, e tutto è cambiato di nuovo. Radicalmente.
Oggi per essere un media attivista non servono specifiche competenze giornalistiche, informatiche, né di altro tipo. E’ sufficiente un indirizzo mail, da cui aprire un account Twitter o Facebook. Ne sa qualcosa, ad esempio, Nestlè, accusata recentemente in California di sfruttare illegalmente le risorse naturali, e messa sotto pressione non da un articolo ma da una valanga di post con gli hashtag #deforestation e #saveourwater.
Stessa esperienza la sperimenta da tempo la catena mondiale di fast food Burger King: dei primi 10 hashtag delle conversazioni social in cui è citata, tre sono negativi, poiché connessi allo spinoso tema dell’uso dell’olio di palma (#deforestation, #climate, #palmoil). Si tratta di due casi di studio citati nel “Food and Beverage Report 2015”, diffuso dall’azienda di social intelligence Brandwatch. Indirizzato principalmente ai brand in quanto potenziali clienti, fin dalle sue premesse il rapporto riconosce nei contenuti dei social media altrettanti messaggi e giudizi di rilievo, che le multinazionali hanno il dovere di monitorare, ascoltare, capire, e a cui talvolta può essere necessario anche rispondere, pena un calo di reputazione.
Secondo Brandwatch, per il settore della ristorazione i social media possono sì rappresentare un terreno di criticità – il volume di contenuto è altissimo, nel Regno Unito ad esempio una conversazione social su tre riguarda cibo e bevande – ma allo stesso tempo anche grandi opportunità in termini di fidelizzazione, grazie alla possibilità di incentivare la creatività degli utenti e le interazioni. E sui social, sostiene l’azienda di social listening, anche l’esito di una crisi è fortemente influenzato dalla reazione del brand alla stessa.
D’altra parte sappiamo bene che le multinazionali hanno spesso dalla loro parte gli influencer della rete, appositamente ingaggiati per sostenere il marchio con specifiche campagne di promozione. Come anche sappiamo che, altrettanto spesso, gli ‘attacchi’ di utenti sui social non sono affatto spontanei ma vengono organizzati preventivamente con la condivisione preliminare degli hashtag, dei link da far circolare, degli account da menzionare e coinvolgere, dei tweet da pubblicare. Dunque le stesse sfide dialettiche via web sono da tempo caratterizzate da metodi e da tecniche già predeterminate di vero e proprio guerrilla marketing, che di genuino possono talvolta avere ben poco.
Tuttavia, checché se ne dica, una cosa è certa. Dalla loro comparsa, i social media hanno senz’altro reso la rete un luogo molto più democratico, dialogico e paritario di com’era prima. Uno spazio in cui non esistono più rendite di posizione e dove – una volta vagliate la validità delle idee espresse, la capacità di argomentare e di comunicare e l’oggettività dei dati esposti – il giudizio finale è affidato all’intelligenza di ciascuno. Con buona pace di chi pensa di possedere la verità rivelata, chiunque egli sia.