“Ho avuto fortuna”, dice lui. Ma venti anni di Milan, sette scudetti e cinque Champions League non si costruiscono solo con quella. Ognuno però ha la sua sliding door. Quella di Alessandro Costacurta si presenta a 12 anni, quando la sua piccola squadra del Gallaratese viene inserita nello stesso girone dei rossoneri. “Giochiamo contro, faccio due gol e mi prendono per un provino”. È il momento in cui l’occasione incontra il talento, se si pensa che in Serie A ne ha segnati tre in venti stagioni. L’ultimo, su rigore, nel giorno dell’addio. È il 19 maggio 2007 e Billy – pardon, Alessandro, ma questa è un’altra storia – non segna da quindici anni in rossonero.
A San Siro si alzano tutti in piedi. È il terzo della linea Tassotti-Baresi-Costacurta-Maldini a slacciare per sempre le scarpe. “Probabilmente la più forte difesa del calcio moderno. Sotto la guida di un genio come Sacchi abbiamo imparato a muoverci come una persona sola. Tutto iniziava con Van Basten e Gullit, i primi a farsi un mazzo così”. Sono tutti e sei in campo il 24 maggio 1989 a Barcellona, Steaua Bucarest-Milan 0-4. Gli olandesi dovevano difendere, ma soprattutto sapevano segnare. Una doppietta a testa, quella notte. “È la finale più bella tra quelle vinte. Non c’è mai stata una partita in cui i tifosi abbiano influito così tanto. Li avremmo battuti anche in undici contro ventidue”.
“Per diventare forte devi prendere le mazzate”
Per Silvio Berlusconi è il primo trionfo europeo. Apre un’era di successi che oggi, con il Milan che tristemente a metà classifica nell’ultimo campionato, sembra già passato remoto. “Dalle sconfitte bisogna trarre insegnamento. Per diventare forte devi prendere le mazzate. Ho perso tante finali, ma la batosta più dura fu a Marsiglia”. Il riflettore del Velodrome si spegne al novantesimo, si potrebbe ricominciare ma Galliani spinge i giocatori nello spogliatoio: il Milan degli Immortali, bi-campione d’Europa, esce nel peggiore dei modi ai quarti della Coppa dei Campioni. “Capimmo cosa bisognava fare per essere una grande squadra. Si può perdere ma non in quella maniera”. Anche la cavalcata verso il mondiale americano, azzoppata dal Brasile, brucia di meno.
“La politica? In tanti mi hanno cercato, ma hanno smesso perché è difficile capire da che parte sto”
Quando sotto il sole torrido di Pasadena il tiraccio di Roberto Baggio disattiva i clacson di milioni di italiani siamo nel bel mezzo dell’estate del 1994, la prima in cui la storia del Milan si intreccia con quella del Paese. Berlusconi ha giurato come primo ministro a maggio ma nello spogliatoio del Diavolo l’altra passione del presidente si è affacciata parecchi anni prima. Dopo i cinque schiaffi al Real Madrid, il 19 aprile 1989, i più giovani della squadra vengono convocati all’Assassino, storico locale della Milano da bere e covo dei rossoneri. L’ex Cavaliere aspetta con due amici: “Era in compagnia di Craxi e Forlani. Capitai accanto all’esponente della Democrazia Cristiana, aveva giocato a calcio e molta voglia di chiacchierare. Anche troppa. Dopo un’ora presi coraggio e gli dissi che dopo una vittoria così avevo solo voglia di salutarlo e andare a festeggiare”. A Milanello il capo ha fatto scuola e con alterne fortune in politica si sono buttati Giovanni Galli, Andriy Shevchenko, Kakhaber Kaladze e George Weah. In tanti hanno cercato anche Costacurta, dal Pdl alla Lega fino al centrosinistra, “poi hanno smesso perché è difficile capire da che parte sto e, lo dico elegantemente, mi manca il coraggio”. Una scelta di campo, però, l’ha fatta, smarcandosi da vent’anni di rossonero.
“Renzi? Apprezzo il lato decisionista, ma dovrebbe ascoltare di più”
Nel 2011 disse a Il Fatto Quotidiano che ammirava Renzi e Berlusconi doveva dimettersi: “Mi piace ancora oggi, anche se qualche dubbio mi è venuto. Apprezzo il lato decisionista ma dovrebbe ascoltare un po’ di più”. Sul fronte opposto si è ritrovato anche Albertini durante la scorsa estate, candidato presidente della Figc senza l’appoggio del Milan. “Demetrio ha un’integrità morale che apprezzo, dopo otto anni in quel mondo aveva certamente idea di cosa bisogna cambiare”. Il modo migliore per rigonfiare il pallone italiano però resta “un commissioner stile Nba che sappia riportare gli interessi della Lega al centro del programma, invece qui ognuno pensa al suo orticello”.
“Ho smesso di giocare perché non ero più né un buon padre né un buon giocatore”
Lui osserva dagli studi di Sky, dove commenta le prestazioni di tanti ex compagni che ora siedono in panchina. Una parentesi che ha aperto e chiuso a Mantova perché “in campo pensavo a mio figlio e arrivato a casa la testa era ancora alla squadra: non ero né un buon padre né un buon allenatore”. Ha scelto il frutto di quell’amore sbocciato nel 1996. Con Martina Colombari furono i pionieri della coppia calciatore-donna dello spettacolo: “Mi hanno sempre dato fastidio i riflettori puntati su di noi”. C’è un altro aspetto intimo con il quale deve convivere pur non digerendolo a fondo, il soprannome. Accadde tutto durante il primo allenamento a Milanello. Era il 1980 e nella pallacanestro dominava il Billy Milano. Anche sui campi da calcio ci si riscaldava passandosi la palla con le mani. Alessandro aveva giocato a basket e gli esercizi riuscivano bene. “Poi iniziammo a palleggiare e, credo fosse colpa della tensione, ogni tre tocchi il pallone cadeva a terra. L’allenatore mi disse: ‘Ma te ste chi a fa? Va giuca’ al Billy’. Sembrava una sciocchezza, invece i compagni iniziarono a chiamarmi così. Ho quel soprannome terribile, una marca di succhi di frutta in cartone, appiccicato addosso da trent’anni”.