Musica

Francesco Guccini, i 75 anni del ‘maestrone’: “Posso andare al fiume in santa pace”

Il cantautore emiliano non vive fasi. Non ha i vezzi del cantautore moderno, che scavalla di genere in genere, incontra crisi mistiche, stravolge la penna e le note. Lui, al massimo, prima di smettere, è passato dal fare i concerti seduto a cantare in piedi

di Emiliano Liuzzi
Francesco Guccini, i 75 anni del ‘maestrone’: “Posso andare al fiume in santa pace”


Il maestrone compie 75 anni. Ma a modo suo. Componi il numero di casa Guccini, a Pavana, Appennino emiliano, ma già provincia di Pistoia, e la moglie ti dice che è andato a fare due passi al fiume. È fatto così. Ma la cosa che rende unico il maestrone, come lo chiamano da quando era giovanotto a Bologna, è che lui non vive fasi. Luoghi, certo, che poi sono Modena, Bologna e Pavana, non oltre, ma non ha i vezzi del cantautore moderno, che scavalla di genere in genere, incontra crisi mistiche, stravolge la penna e le note. Guccini, al massimo, prima di smettere, è passato dal fare i concerti seduto a cantare in piedi. Poi ha scritto un album più bello dell’altro, ma questa è un’altra storia.

Dicevamo del tempo. Produzioni discografiche mai frenetiche. Adesso è molto più preso dalla scrittura, da solo o con Loriano Machiavelli, che non dalla musica. “Ne ascolto poca in realtà. Ho smesso”. Quando è in buona gli piace raccontare delle sue canzoni, di come sono nate, quasi sempre la notte, come le ha cresciute e cantate. “Autogrill è l’unica inventata”, racconta. “Parla di un non luogo, che potrebbe essere alla periferia di Chicago o in una di quelle strade sulle Dolomiti. Parla di un colpo di fulmine non consumato”. E poi c’è La Locomotiva, che per mezzo secolo ha chiuso tutti i suoi concerti. “Tenetevelo stretto uno come Guccini, perché una ballata di tredici strofe su una locomotiva non c’è nessuno al mondo che possa scriverla”, e detto da Umberto Eco, è sempre un bell’ascoltare. Difficile raccontare il compleanno per chi, come chi scrive, Guccini lo ha amato in maniera incondizionata, quasi viscerale. A volte ti verrebbe voglia di saltargli al collo per quanto è rassicurante quando prende la chitarra. Ha sempre messo d’accordo la critica (a parte Riccardo Bertoncelli, al quale dedicò L’avvelenata, e compì il miracolo di render celebre uno scribacchino, competente, ma pur sempre scribacchino) e il pubblico.

Un pubblico dai colori abbastanza diversi. Ai suoi concerti un paio di generazioni ci stanno tutte. Ci sono anche i ragazzi con le bandiere rosse, le ultime rimaste, convinti che sia stato cantore di una rivoluzione mancata. Dispiace deluderli, ma Guccini comunista non lo è mai stato. Ha giocato a sparigliare le carte, ma fondamentalmente in maniera molto anarchica e anche un po’ socialdemocratica. Ha votato Romano Prodi, ovvio, si è speso per la campagna elettorale di Sergio Cofferati a Bologna, salvo poi pentirsene come tutti i bolognesi, ma erano già tempi diversi. Allora, nel 1977, quando Bologna sembrava sul punto di esplodere, non andava in piazza con le molotov. No. Frequentava l’ambiente di quella sinistra, ma non condivideva la violenza. Quando in piazza morì Lorusso, studente di Lotta continua, lui era su un’altra barricata, quella degli insegnanti, al Wilkinson College a fare lezione d’italiano. Ma poco importa, soprattutto ai gucciniani. Anche perché doveva farti sognare, e lo faceva. Ci sono due o tre pezzi che resteranno nella storia della canzone italiana: Incontro, Scirocco, La bambina portoghese, e La Locomotiva, per i motivi citati da Eco.

Di ricordi, più o meno affannati, ce ne sono. I miei, di bambino, sono tra il 1981 e il 1984: il primo è Carmelo Bene che legge la Divina Commedia dalla torre degli Asinelli per il primo anno della strage. Il collega Marco Marozzi, per ragioni anagrafiche, può raccontare meglio di me di aver visto piangere il maestrone. Il 1984 fu la celebrazione di Guccini. L’amministrazione comunale di Bologna, allora una cosa molto seria rispetto a oggi, decise di proporgli un concerto in piazza per i 20 anni di carriera. Guccini, sulle prime, disse: e perché dovrei farlo? La risposta fu: lo potrebbe fare qualcun altro. Accettò. E quella notte, tra i Nomadi, Paolo Conte, Claudio Lolli, e lui, Francesco Guccini, si trasformò nella Woodstock all’italiana. Trecentomila persone. Molti rimasero all’uscita dell’autostrada, perché il traffico era in tilt. Guccini, provato, emozionato, stravolse leggermente la scaletta (è l’unico concerto dove non iniziò con Canzone per un’amica, aprì con Un altro giorno è andato) e chiuse, ma qui la memoria gioca brutti scherzi, con Bologna. Sicuramente non La Locomotiva, che fece a metà serata. Che altro dire? Memorabile è stata la carriera di Guccini anche per i 40 anni a seguire. Memorabili le apparizioni al club Tenco, in duetto con Roberto Vecchioni, quando prende in prestito Luci a San Siro (“Maledizione, perché non l’ho scritta io?”) o Lontano, lontano.

Grazie, a nome di tutti quelli che con Incontro hanno sognato o mentre la musicassetta girava sullo stereo dell’auto hanno scoperto l’amore. Grazie per i viaggi, i sogni, le speranze. Grazie per l’educazione, non della voce, che non è educata, ma nel non prendersi mai troppo sul serio. Grazie di tutto, maestro. Al prossimo libro, perché di chitarra sappiamo che non ne vuole più sapere. “Non è questo, è che ho perso anche il callo del suonatore. Serve allenamento. A 75 anni ho bisogno anche di andarmene al fiume in santa pace. O scrivere, che poi è quello che ho sempre fatto”.

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