Cultura

Dario Vergassola, ecco il suo ‘La ballata delle acciughe’: “Ansia, ipocondria e pettegolezzi al bancone di un bar di provincia”

L'ultimo romanzo del comico genovese continua a riscuotere un grande successo di pubblico: "Leggo tantissimo, ma mi vergognavo a scrivere - ha raccontato a FQ Magazine - Invece sono proprio contento di com'è venuto fuori, divertente e commovente, posso dirlo"

di Ilaria Lonigro

I viaggi, l’amore, Dio e le piccole cose, come le acciughe sul bancone di un bar: intervistare per telefono Dario Vergassola è come farsi un giro in giostra. Ci si diverte, si scende al fondo della vita e poi si risale. Chiacchiera senza aspettare le domande, ogni tanto si interrompe per salutare un conoscente, una vecchina, a passeggio nella sua La Spezia. “Ciao, come va? Scusa, sono al telefono”. Il comico, classe 1957, è confuso più che mai. “Sono nonno da 10 giorni senza accorgermene. E’ la figlia femmina che ha fatto una femmina. Sono nel famoso brodo di giuggiole”. Come se non bastasse, il suo romanzo “La Ballata delle Acciughe” (129 pp., 2014, Mondadori) continua a riscuotere un gran successo di pubblico.

Le letture che ne dai, ultima quella al Festival dell’Andare (fino al 25 giugno in provincia di Massa Carrara), attirano tante persone. Di cosa parla il libro?
Parte da un bar di provincia, una via di mezzo tra bar e osteria, come quelli che c’erano una volta, ripuliti da slot machine, dove uno andava lì portando con sé tutte le sue paturnie, i pregi e i difetti: una sorta di centro di igiene omeopatico. Tra i personaggi che lo frequentano, c’è uno che ha l’ansia, l’ipocondria, tre giganti che salvano l’amica dallo stalking, un barista che sa tutto, perciò lo chiamano Gigipedia, due cassintegrati che giocano una partita a biliardo che non finisce mai. Muore un amico, quello che ha studiato, che è diventato giornalista, ha fatto carriera fuori, a Roma o Milano. Lascia un testamento molto affettivo, cose preziose per loro: foto, cd, manifesti. A patto che tal Gino, quello più sedentario di tutti, impiegato statale, con moglie e figli, vada a fare una sorta di pellegrinaggio laico a Woodstock, per quelli della mia età, un santuario. Recalcitrante, perché deve mollare lavoro e famiglia, parte con la telecamera, per fare un docufilm da far vedere agli altri quando torna.

Il viaggio cambierà Gigi?
Tutti i viaggi cambiano un po’. Tutto quello che per lui era banale, di routine, andando via acquista un altro aspetto. Allontanarsi serve a vedere meglio le cose. Vedi alla voce fidanzati, case, lavoro. Se te ne vai un po’, scopri che le cose che dai per scontate sono preziose. Nel viaggio vivrà avventure e disavventure. A Woodstock, ad esempio, trova solo un campo di pannocchie.

E le acciughe del titolo?
Sono le acciughe pettegole sul bancone del bar, acciughe di Monterosso. Sono il coro greco, commentano tutto quello che accade. Sanno il fatto loro, hanno fatto il giro del mondo, conoscono il Mediterraneo, sono ricche di fosforo, quindi molto intelligenti.

Sei soddisfatto del libro?
Leggo tantissimo, ma mi vergognavo a scrivere. Invece sono proprio contento di com’è venuto fuori, divertente e commovente, posso dirlo.

Oggi si scrive molto e si legge poco, è così?
Sì, uno dovrebbe leggere almeno duecento libri prima di azzardarsi a scriverne uno. Stai attento lì alla testa… scusami, stanno facendo dei lavori alla barca.

Hai una barca?
Sì, è napoletana, l’ho chiamata Pelandrona, ha più di 35 anni, è otto metri, era tutta bianca, si chiamava Moby Dick o una cosa simile, mi sembrava terribile, così ho dato una mano di pittura e ho cambiato il nome. Sono ansioso e ho gli attacchi di panico. Per questo motivo non sono mai stato solo. L’unico posto in cui ho scoperto di riuscire a stare solo, e ci sto bene, è sulla barca. Quando ci porto qualcuno, anche personaggi abbastanza famosi (mentre di solito esco sempre con compagni delle elementari, delle medie e superiori, infatti il libro è molto autobiografico), offro uva e focaccia. E chi sa apprezzarla, coglie la prova dell’esistenza di Dio. Se non te ne accorgi vuol dire che non siamo sintonizzati.

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