“Fermé”. “Mi dispiace l’imbarco è chiuso”. Ore 17 e 50. Volo Easy Jet Parigi Orly – Roma. L’aereo è lì, non è ancora decollato. Ma la sbarra è fin troppo esplicita: non c’è verso di prenderlo. Era partita male: l’arrivo nella Capitale era previsto a Fiumicino, ma era stato spostato a Ciampino, causa chiusura del Terminal 3. Check-in da rifare, varie ed eventuali. Poi, l’errore. Di quelli fatali, da incubo. Di quelli che ti dici: “Possibile che sia successo?”. Possibile. Fare la fila al gate B 9, e scoprire solo alla fine che il tuo aereo partiva dal 10. Corsa riparatoria. Ma niente: l’aereo c’è ma il gate è irrimediabilmente chiuso. E i francesi (che “s’incazzano”, tanto per citare una nota canzone di Paolo Conte) fermi sulle loro posizioni: “Non potete passare. L’imbarco è chiuso”. Inflessibili, non c’è verso né di piegarli, né di impietosirli. Una beffa. Doppia: sul volo successivo, un paio d’ore dopo, c’è solo un posto. Lo lascio alla persona che viaggia con me. Per pagare “solo” gli 80 euro del cambio prenotazione e non rifare il biglietto, l’unica altra possibilità sono le 7 e 10 della mattina dopo (stamattina). Con check in da fare verso le 5. Protesto, mi agito, per farmi imbarcare sul volo serale, provo ad appellarmi al fatto che nessuno ha neanche provato a chiamare i ritardatari con l’altoparlante. Invoco una lista di attesa. “Non è nella politica Easyjet”, dice la francese al banco, senza muovere un muscolo del viso. Gelida e incorruttibile. Alla fine mi arrendo, pago. E comincio a vagare alla ricerca di un posto dove dormire. Il banco informazioni del Terminal Sud di Orly è abituato a simili inconvenienti. “C’è l’Ibis hotel. Ci arriva con uno shuttle che ci mette tre minuti e passa ogni 10. Costa 96 euro e sicuramente c’è posto anche per lei”. Stavolta la signorina deputata a fornire soluzioni è accogliente nei modi e morbida nei modi. Potenza del marketing.
Direzione Ibis, dunque. Un posto in mezzo al niente, tra un Terminal e l’altro. “Un’ora 14 euro, minimo 2”, recita la scritta all’entrata. E io capisco che di compagni di sventura ce ne sono tanti. Il tempo di entrare ed ecco un posto che pullula di gente di tutto il mondo. La ragazza che fa la fila di fronte a me, mi lancia uno sguardo furtivo. Un mezzo sorriso complice di quelli che dicono: “Cose che succedono”. Al bar intravedo gente che più o meno “se la beve”. La signorina che mi dà la stanza è di una cortesia impeccabile. Pare di stare in una clinica privata, quando tocca sempre a infermiere perfette al limite del disumano dirti che ti devi operare d’urgenza, ma “Non si preoccupi, c’è una data disponibile tra dieci giorni” (come se il problema fosse effettivamente quello. E dunque risolvibile). Stanza decisamente anonima, ma con televisore enorme. Al telefono, la reception non risponde, ma la sveglia automatica è multilingue e ovviamente ha una procedura “for Dummies”. Cena sotto. Buffet internazionale con prezzi popolari. Di fronte a me c’è un ragazzo che compulsa lo smartphone e non alza mai gli occhi (messaggio non verbale: “No, non sono qui per davvero”). Accanto una coppia, lei giapponese, lui occidentale. Che, fedele alla regola, “Eat as much, as you can” (“Mangia tutto quello che puoi”) si riempie il piatto almeno tre volte in dieci minuti. Opportunità dell’ultimo secondo. Tornando in stanza prendo l’ascensore con una coppia di anziani signori. Aria tra lo stravolto, l’incredulo e il rassegnato. In tv per tutta la sera va in onda un talk show.
Tra i titoli principale: “Il premier italiano minaccia un piano B, se l’Europa non fa abbastanza per i migranti”. Argomenti noti. Molto rassicurante. Tutto nell’ambiente trasuda normalità. Messaggio subliminale: “Don’t panic. C’è sempre un altro volo. C’è sempre un albergo per te”.