“Mi raccomando, attenta”, mi dice un amico. Stay safe.
Poi un altro. E un altro ancora.
E quindi capisco che nessuno, in Europa, ha idea di dove sia Riga. In Iraq, probabilmente. Vicino Ramadi. O forse in Siria: è vicino Palmira. Pensano tutti io stia sul fronte di Riga.
Al vertice dell’Unione Europea sul Partenariato Orientale, sulle relazioni, cioè, con i paesi dell’est, sono tutti più europei di noi europei. I ministri, i funzionari, gli attivisti dei paesi confinanti, che sognano l’adesione, o almeno l’associazione, almeno un sorriso, una stretta di mano, sono qui che parlano ispirati di valori. Citano Altiero Spinelli, parlano di democrazia, libertà. Diritti umani. Noi rispondiamo con la tecnica e l’economia. Con parametri da rispettare, debiti da contenere, tabelle, indici e percentuali. O più semplicemente, con un’alzata di spalle.
Perché quelli dell’est sono i nostri vicini difficili. Sono sei: l’Armenia, l’Azerbaijan, la Bielorussia, la Georgia, la Moldavia, l’Ucraina. E alle loro spalle, spesso sulla loro testa, in forma di missili e mortai, c’è la Russia. Che si è trasformata da alleato a problema, riassume Carl Bildt, lo svedese ideatore del Partenariato Orientale. “E da problema si sta trasformando in avversario”.
E sarà perché sono arrivata qui dritta da Baghdad, sarà che mentre andavo in aeroporto un uomo è stato sequestrato, così, per strada, al semaforo, un altro è stato ucciso, sarà che quando arrivi da paesi così hai voglia di startene da solo, per un po’, da solo e basta, perché poi, in questa parte di mondo, ti imbatti in gente che si scontra, si detesta per niente, si abbatte per niente, e non ha mai coraggio per niente, e ti sembra tutto un imperdonabile spreco di vita e bellezza – ma qui a Riga, davvero: vorrei venissero tutti con me ad Aleppo. A Gaza. O anche solo a Slavyansk, visto che si parla di Ucraina: e l’Ucraina è stata la guerra più inutile in cui mi sono mai ritrovata. La guerra in cui ho avuto più paura. Anche se è niente, rispetto alla Siria: è una guerra di artiglieria, è niente rispetto ai barili esplosivi, rispetto alla battaglia strada a strada.
Ma la paura è una questione di testa. Devi crederci. Devi avere la certezza che la storia che stai raccontando vale la tua vita. O la paura ti travolge. E ad Aleppo, onestamente, a Gaza – sì: sei pronto. Ma l’Ucraina è una guerra insensata – un’invasione, per la precisione: in cui da entrambi i lati del fronte, in realtà, non hai che oligarchi. Hai questa sensazione che gli ucraini non c’entrino niente: non c’è nessun est contro ovest, sunniti contro sciiti, cristiani contro musulmani. Solo oligarchi. Oligarchi ovunque, a contendersi il gas e il petrolio mentre gli ucraini si riscaldano a carbone.
E Putin ha vinto già da mesi: perché il suo obiettivo non era la conquista, era la destabilizzazione. Il suo obiettivo era che quest’anarchia diventasse normale. Che l’Ucraina fosse paralizzata. Non approvasse riforme. Non entrasse nell’orbita europea.
Diciamo di raccontare la guerra in Ucraina. Ma la guerra è già finita. Questa è la pace secondo Putin. E però ovviamente qui a Riga, anche se tutto ruota intorno alla Russia, è vietato parlare di Russia. Perché per Putin il Partenariato Orientale, istituito al momento dell’allargamento a est per consentire a paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Romania, di mantenere i legami con il mondo ex sovietico, non è che un’indebita ingerenza in un’area di sua proprietà. E quindi in teoria siamo qui per fare il punto della situazione: ma l’unica cosa che il Partenariato Orientale ha ottenuto, fino a ora, è stata l’invasione dell’Ucraina. Di cui però, appunto: è vietato parlare, perché il 20 percento della nostra energia viene dalla Russia.
E quindi siamo qui: ma nessuno ha capito perché. Per parlare di cosa. Sono stati mobilitati centinaia di diplomatici, analisti, consiglieri. Opinionisti sparsi. Sono stati arruolati centinaia di giornalisti. Sono stati occupati tutti gli hotel di Riga, spalmate migliaia di tartine, stappati migliaia di prosecchi: è stato confiscato tutto il salmone del Baltico. E mentre il mondo, intorno, ribolle, noi passiamo da una riunione all’altra. Da un aperitivo all’altro. E quale che sia l’argomento, quale che sia la dichiarazione, la premessa è sempre la stessa: “questo è off the record, naturalmente” – perché è tutto confidenziale, qui, tutto sussurato all’orecchio come se ti venisse rivelato chissà quale segreto con cui vincerai il Pulitzer: e non capiscono che tu prendi appunti solo perché sei gentile, invece, e perché ti regalano ogni volta un quaderno nuovo, e la penna blu con le stelle gialle: ma poi infili tutto nel primo cestino che trovi. Perché nessuno, qui, dice mai niente di minimamente degno di nota.
E mi tornano in mente gli attivisti di Kiev. Che vogliono l’Europa nonostante l’Unione Europea, in realtà, nonostante l’euro. Nonostante l’economia: perché poi hanno paura di finire come la Grecia. Asserviti agli interessi della Germania. L’Europa, vista da fuori, significa prima di ogni altra cosa democrazia. Significa libertà, riforme. E c’è tutta la loro forza, qui, nel loro ministro delle finanze, Natalie Jaresko: determinata, precisa, solida. Donna dai mille progetti, dall’infinita energia. Ma mentre lei lavora, mentre lei fa di tutto, più di tutto, mentre gli attivisti si battono, e gli ucraini si schiantano, e inutilmente, tra questi mortai senza senso, noi spalmiamo tartine. Parliamo d’altro. Vigliacchi.
Non meritano l’Europa, mi dice un funzionario. Vorrei dirgli: è vero, meritano di meglio. Noi che neppure conosciamo i nomi delle nostre capitali. Noi che l’Europa è solo i parametri di Maastricht.
La dichiarazione finale del vertice di Riga riafferma “il diritto sovrano di ogni paese a scegliere liberamente le ambizioni a cui aspira nelle sue relazioni con l’Unione Europea. Sta all’Unione Europea, poi, decidere come procedere in queste relazioni”. E ci mancherebbe che uno non sia libero e sovrano neppure in quello che sogna, commenta il corrispondente del Guardian. E riassume le 13 pagine di conclusioni in un rigo: “L’Unione Europea riafferma il suo impegno a dichiarare il suo impegno nei confronti delle proprie affermazioni”.
Fuori, una manciata di signore attempate protesta contro la guerra e il capitalismo. “A Milano per l’Expo hanno sfasciato mezza città”, mi dice mesto un funzionario. “Qui non abbiamo che tre pensionate. Detto off the record, ma ormai contiamo meno di un cetriolo biologico“.