Ogni anno, nelle università di design di tutta Europa, un buon numero di studenti decide di usare le capacità acquisite per indagare criticamente problematiche sociali, culturali e ambientali. Questi progetti testimoniano l’urgenza di molti giovani designer di esplorare il potenziale della propria professione e il più delle volte vengono premiati dal mondo universitario: portano una boccata d’aria ad un campo spesso troppo auto-referenziale. Dalla rivista nata per sensibilizzare sul tema dell’omofobia, della transfobia e dell’identità sessuale ad un “brand” creato per dare visibilità ai venditori ambulanti (in prevalenza senegalesi), fino all’ideazione di una bio-sentinella indossabile progettata per monitorare l’inquinamento dell’aria, i giovani designer europei dimostrano di sapersi interfacciare con tematiche contemporanee complesse.

Purtroppo però – pur sperando che non sia così per i progettisti citati sopra – è d’obbligo fare i conti con il fatto che la maggioranza dei neolaureati, al momento di passare dall’università al mondo del lavoro, si ritrova spiazzata e priva di strumenti per andare avanti. L’università ha incoraggiato la loro voglia di contribuire alla società con progetti impegnati e trasformativi, ma il mercato difficilmente lascia spazio a questo tipo di lavori. Sopraffatti dalla precarietà, molti giovani e promettenti designer spariscono – o cambiano approccio – e di solito sono i progetti meno critici a farsi strada.

Di fronte a questa prospettiva allora, come mai le università di design dedicano così poca attenzione a preparare gli studenti al mondo del lavoro in termini di capacità organizzative, collaborative e promozionali?

Guadagnarsi da vivere tramite una pratica sperimentale e socialmente impegnata non è facile, eppure è possibile. Occorre affrontare la questione in maniera strategica, ripensare priorità e stili di vita, far comprendere il valore effettivo dei propri progetti, sperimentare nuovi canali di finanziamento, mettere in discussione i confini disciplinari. Ma la possibilità di produrre progetti propri, fare ricerca, problematizzare, non può essere solo un privilegio di chi ha alle spalle famiglie benestanti o governi ricchi che pagano l’affitto e le spese durante i primi anni dopo l’università. Ogni neolaureato dovrebbe avere la possibilità di mettere in piedi una pratica di design che sia sostenibile a tutti i livelli. Per questo è fondamentale che le università aiutino gli studenti a gettare le basi della propria professione prima di terminare il percorso di studi, istituendo corsi che introducano modelli organizzativi ed economici progressisti, capaci di affrontare le problematiche reali del mondo del lavoro, prima fra tutte la precarietà.

Per ora, sono i neolaureati di tutta Europa che si sono organizzati autonomamente per colmare queste lacune debilitanti, mobilitandosi per esempio attorno alla nascita di cooperative di lavoratori, all’organizzazione dei liberi professionisti e alla co-creazione di strumenti di supporto alla professione. Le istituzioni saranno capaci di mettere a frutto queste iniziative e creare canali di collaborazione?

Lo speriamo fortemente.

Illustrazione: Precarity Pilot di Caterina Giuliani

Precarity Pilot di Caterina Giuliani

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