"L'attività - scrive il giudice di Torino nelle motivazioni - si è sempre svolta al di fuori dalla normativa vigente". Si era chiusa con il patteggiamento l'avventura giudiziaria dello psicologo Davide Vannoni che sosteneva di poter curare pazienti, soprattutto bambini, affetti da malattie degenerative
Una “truffa scientifica”. Una “metodologia” realizzata “del tutto al di fuori della disciplina normativa”. Così il giudice Potito Giorgio del tribunale di Torino definisce il metodo Stamina e i comportamenti di Davide Vannoni, Marino Andolina e gli altri imputati del processo terminato il 18 marzo scorso con sei patteggiamenti (tra cui quelli di Vannoni e Andolina), la condanna a sei mesi per Carlo Tomino, dirigente dell’Aifa, e a due anni per Marcello La Rosa, ex socio di Vannoni.
Dagli atti dell’inchiesta “emerge chiaramente come l’attività del gruppo del Vannoni, per tutto il periodo in cui è protratta (ossia tra il 2007 e il 2014) ed in tutte le sedi in cui si è dislocato, si sia sempre svolta del tutto al di fuori della normativa vigente”, scrive il magistrato nelle motivazioni depositate oggi. In quel periodo è stato riscontrato come “ci siano state gravi e molteplici violazioni delle disposizioni materia di medicinali”, ma anche come “tali somministrazioni fossero potenzialmente pericolose per i pazienti che vi venivano sottoposti”.
Vannoni, promotore di quella che per il pm Raffaele Guariniello è un’associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla somministrazione di farmaci guasti, e il suo “principale collaboratore” Andolina volevano accreditare nel sistema sanitario pubblico il loro discusso metodo di cura delle malattie neurodegenerative con preparati a base di cellule staminali mesenchimali, cioè ottenute dal midollo osseo. Per farlo però hanno commesso una truffa: “Risulta ampiamente provato, sempre alla luce delle numerose e concordi dichiarazioni dei pazienti, il modus operandi del Vannoni, il quale induceva in errore i pazienti stessi, soggetti afflitti da gravi malattie, prospettando loro indimostrati effetti terapeutici derivanti dalla somministrazione del metodo ‘Stamina’, sino ad arrivare a garantire loro, in alcuni casi, addirittura la guarigione”, si legge in merito al “periodo torinese” compreso tra il 2007 e il 2010. I suoi collaboratori erano ben consapevoli “della natura del meccanismo fraudolento” e “non esitavano a prestare in maniera continuativa il loro apporto a tale attività criminosa”. Ad esempio Andolina aveva fatto leva su un “ricatto morale”, come scrive il gup, per sbloccare un’impasse sorta a Brescia nel 2011 dopo l’intervento dell’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa). Lo dimostra una mail inviata a Carlo Tomino, dirigente dell’agenzia, per convincere quest’ultimo a cambiare parere permettendo alla Stamina Foundation di continuare il suo lavoro: “Il Comitato etico di Brescia ha letto la sua lettera e ha chiuso il progetto – scriveva il medico triestino – Pazienti in fin di vita che aspettavano la cura sono in pericolo”.
Rivelatore è stato il “pentimento” di Massimo Sher, un dottore che aveva fornito una trentina di pareri medico-legali alle famiglie dei pazienti che si erano rivolti ai giudici civili per ottenere l’autorizzazione a proseguire la “terapia” negli ospedali pubblici. All’inizio del 2014 ha inviato una lettera ai Nas di Torino, che hanno condotto l’inchiesta, e poi si è presentato spontaneamente alla procura di Torino: “Si è detto vergognato per ‘aver avuto la leggerezza di alimentare false speranze nel falso metodo terapeutico di Davide Vannoni’ e ha affermato di sentirsi colpevole se le sue relazioni ‘possono avere contribuito a convincere tribunali giudicanti sulla necessità di autorizzare la terapia del nulla”, scrive il giudice Potito citando il verbale dell’interrogatorio. Inoltre aggiunge che Sher riceveva da Vannoni 800 euro circa per ogni perizia: “Non avevo alcuna cognizione scientifica su che cosa si basi il metodo Vannoni o Stamina – ha dichiarato agli inquirenti il medico legale – Mi sono lasciato convincere ed ho accettato anche perché il Vannoni ad un certo punto mi ha detto che tutte le mie valutazioni cliniche e relazione le avrebbe fatte presentare da un altro neurologo”. Così il medico certificava miglioramenti dei pazienti sulle base delle informazioni fornite dai familiari, informazioni che per il magistrato erano “spesso frutto di suggestioni”.