Ancora una volta si è rivelata incontrovertibile la celebre sentenza di Abramo Lincoln: “potete ingannare tutti qualche volta e qualcuno per sempre, ma non riuscirete mai a ingannare tutti per sempre”. Di conseguenza, breve la vita felice di Matteo Renzi; il giovanotto che pretendeva di menare per il naso all’infinito la pur sfiancata (oltre che di bocca buona) pubblica opinione italiana. E che la recente tornata elettorale ha drasticamente ridimensionato; dopo i trionfalismi effimeri dell’anno scorso, con l’oltre 40 per cento dei voti incassato nella consultazione europea. La breve vita – dunque – dell’ennesimo virgulto di quello star system (sul macchiettistico) in cui è precipitata la politica italiana dopo l’avvento di Silvio Berlusconi; il quale continua tuttora a calcare la scena, nonostante un’inquietante mummificazione che lo ha trasformato in manichino da Museo Grévin, solo grazie alle rendite mediatiche a propria disposizione.
Insomma, per Renzi il canonico “quarto d’ora alla Andy Warhol” è durato un annetto, poi i limiti del “personaggetto” (per dirla alla Maurizio Crozza) sono venuti alla luce con impietosa evidenza. Proviamo a passarli in rassegna, nel loro oscillare tra la parrocchietta dei compagnucci del partitino e una furberia di stampo regionale, da Francesco Boccaccio alle maschere da Commedia dell’Arte. Comunque e sempre, tratti caricaturali da perfetto stereotipo arcitaliano:
1) La concezione del consenso come gioco delle tre carte. Ossia il voto di scambio virato a pacco dono. Aveva funzionato l’altr’anno con la paghetta degli 80 euro per fasce target. Non quest’anno, con l’annuncio pre-elettorale dell’assunzione a settembre di 100mila insegnanti precari (del resto promessa immediatamente smentita a urne chiuse con argomentazioni farlocche).
2) La menzogna come tecnica di governo. Ossia la sottovalutazione dell’interlocutore del momento, nella presunzione di poter infinocchiare chicchessia. Da Enrico “staisereno” Letta ai partner europei, cui rifilare le meraviglie di un nuovo corso italico inesistente. In apparenza tutto molto machiavellico, mentre in realtà trattasi delle solite tecniche da magliaro. Difatti a Bruxelles non se la bevono più e gli rispondono “dai, fatti un selfie”.
3) Il mito del grande comunicatore come chiacchiera ininterrotta. Ossia il rintronamento sonoro dell’uditorio sull’esempio impareggiabile del grande Totò (“lei è un paziente che non ha pazienza e che paziente è, abbia pazienza”). Con un precedente locale: l’ex ministro pisano della giustizia Alfredo Biondi (già malagodiano e poi berlusconiano); un logorroico della Prima Repubblica di cui il corsivista Fortebraccio scrisse che “questo liberale rischia sempre di venire travolto dai suoi detti, sonori e inespressivi”.
4) La presunte virtù taumaturgiche. Ossia il tocco magico, destinato a trasformare in principessa qualsivoglia batrace. Si direbbe una costante nei campioni dello star system, visto che Antonio di Pietro imbarcava improbabili cultori di valori tipo Antonio Razzi, Domenico Scilipoti o Giovanni Paladini, illudendosi di essere una sorta di Lourdes redentrice. Renzi pretendeva di fare lo stesso con ‘Crudelia De Mon’ Paita. Gli elettori hanno risposto con il gesto dell’ombrello.
5) Lo stile tracotante con gli inermi, in ginocchio con i forti. Ossia maramaldeggiare con i metalmeccanici e farsi stuoino innanzi a Sergio Marchionne. Tipico vezzo nazionale tra il plebeo e il servile, che rivela immediatamente la totale indifferenza del premier ale questioni sociali più lancinanti: molto meglio collezionare status symbol e frequentazioni vip.
Stando così le cose e smascherata l’intrinseca vocazione carrieristica dell’inconcludente Superbone di Rignano sull’Arno, si potrebbe prefigurarne la prossima fine di carriera. Sempre che prendessero corpo alternative credibili; in assenza delle quali il personaggetto risulta non schiodabile.