Una questura lombarda ha applicato il provvedimento disciplinare dopo che sui social sono apparse alcune foto in cui l'agente indossava abiti femminili. Una sentenza della giustizia amministrativa ha stabilito che il suo comportamento fa parte della "libera espressione della propria vita sessuale e non è indecoroso”. Mentre il Tribunale amministrativo gli ha riconosciuto un risarcimento da parte del ministero dell'Interno
A un poliziotto che nel privato, come “libera espressione della propria vita sessuale”, si veste da donna e pubblica sue immagini sui social network (non pornografiche e non lesive del comune senso del pudore), non possono essere applicate sanzioni disciplinari. Il ministero dell’Interno è avvertito, visto che se dovesse farlo sarebbe poi chiamato a risarcire.
Lo dicono due sentenze della Giustizia amministrativa – Consiglio di stato e Tar della Lombardia – chiamata a pronunciarsi in due momenti differenti sul caso di un assistente capo della Polizia di Stato, in forza ad una questura lombarda, e su alcune sue immagini che furono rinvenute dai suoi colleghi su un social. Nelle foto, il poliziotto non indossava la divisa, ma “succinti abiti femminili”. Quegli scatti finirono così in mano ad un superiore che fece partire un provvedimento disciplinare, che ha portato alla sospensione di un mese dal servizio, perché fu evidenziato nella condotta dell’assistente capo “gravissima mancanza di correttezza nel comportamento”.
L’agente è ricorso al Tar che però, in primo grado, non si è espresso a suo favore. Nel febbraio del 2014 il Consiglio di Stato ha invece ribaltato quel responso. Secondo diversi ordini di motivi, i provvedimenti disciplinari erano illegittimi. Per prima cosa “per il diritto vivente il travestimento in abiti femminili non può qualificarsi in sé ‘indecoroso’”, stabilisce il Consiglio di stato, che aggiunge: “Ciò vale anche se trattasi di agente di pubblica sicurezza, che agisce nella sfera della sua vita privata”. Infatti, “l’inclinazione sessuale, anche degli appartenenti alle forze dell’ordine, non costituisce materia di ricatto o di possibili ritorsioni specifiche, o almeno non più di altri aspetti della vita della persona”. E per giustificare ciò si citano gli articoli 2 e 3 della Costituzione e addirittura la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale: “La libertà di espressione costituisce una delle fondamenta essenziali della società”.
Forte di questo pronunciamento, l’assistente capo è ricorso di nuovo al Tar per chiedere un risarcimento in denaro per quanto subito sul posto di lavoro. La sentenza è arrivata la settimana scorsa ed è – per lui – positiva: il Tribunale amministrativo lombardo ha riconosciuto che all’assistente capo deve “essere risarcito il danno non patrimoniale, arrecato alla libertà di espressione, intesa come libera esplicazione della propria vita sessuale”. “In quanto – spiega meglio il Tar – riguardante l’identità della persona e il diritto alla realizzazione della propria personalità, ingiustamente compressa dall’Amministrazione attraverso l’applicazione di una sanzione disciplinare”. Per questo motivo il ministero pagherà al poliziotto che si veste da donna la somma di 8 mila euro.
La giustizia sembra aver garantito, in questo caso, non tanto il diritto di un lavoratore di aver riconosciuta la propria omosessualità o transessualità, ma semplicemente la facoltà di esprimere in libertà le proprie inclinazioni e fantasie sessuali, anche se particolari ma non volgari, violente o offensive.